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Reddito di cittadinanza, scene di caccia al povero

In un momento così particolare per la storia del nostro Paese, l’unica cosa che cresce è la confusione. I sentimenti di ansia e paura per il futuro, amplificati dalla pandemia, vengono ora sapientemente indirizzati dalla destra contro i nemici interni. L’untore è sempre dietro l’angolo. E questo sembra uno schema funzionale anche nella sfera economico-sociale. I soldi per sostenere una finanziaria postelettorale non ci sono, e nessuno pensa di rompere il tabù di cristallo del tetto al debito pubblico. Così, per dare qualche contentino agli elettori, si devono “redistribuire” le poste in gioco: prendere dai poveri per dare qualche briciola ai più poveri. L’idea geniale – che potrebbe suscitare l’invidia dello stesso ex ministro Tremonti, mago della finanza creativa – viene applicata in tutti i settori del welfare e delle politiche sociali. Insieme con un’altra idea, che si fa strada nel dibattito politico e nell’opinione pubblica sempre più populista: sei povero? È colpa tua. Anzi, dobbiamo cercare di metterti da parte, perché rischi di essere un freno al progresso economico. Sul reddito di cittadinanza precipita un dibattito etico-politico vecchio di tre secoli.

L’avevano promesso e lo stanno facendo, anche se in modo per ora soft, o meglio mimetico. Il reddito di cittadinanza va abolito – e cosa ci sarà dopo, come provvedimento di welfare per sostenere le famiglie povere, nessuno è in grado di dirlo. Il governo Meloni si basa su una propaganda politica che, pur essendo parzialmente camuffata, raggiunge picchi ideologici mai sentiti: e questo si capisce più da cosa scrivono e filmano i politici sui social, che dalle dichiarazioni ufficiali spesso imbarazzate o, peggio, dilettantesche. Il fastidio della premier Meloni, nei confronti dei giornalisti che sarebbero troppo incalzanti nelle domande (con Draghi erano molto più “rispettosi”), è esemplare dello spirito dei tempi. Ci sono perfino cronisti politici ed economici che rimpiangono appunto il ministro più maleducato, quel Tremonti che ti bacchettava pubblicamente dicendoti, “lei non capisce niente…”.

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Governo, la manovra dei trabocchetti

Potevamo fare di più. Ma i soldi non ci sono, la crisi non è passata e la guerra non è finita. E dobbiamo rendere conto (almeno per ora) all’Europa. Ma abbiate fiducia, questo è solo il primo passo. Realizzeremo tutte le promesse cominciando a punire i furbetti del reddito di cittadinanza. Si può sintetizzare così il messaggio lanciato questa mattina (22 novembre) dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dai suoi più fidati ministri durante la conferenza stampa di presentazione della “manovra 2023”: in totale 35 miliardi di euro, 21 dei quali andranno sotto forma di credito d’imposta alle imprese per affrontare il caro energia e 9 miliardi ad ampliare la platea delle famiglie che potranno usufruire degli aiuti dello Stato nel calmierare le bollette. Niente flat tax incrementale e generalizzata, niente condono tombale (solo provvedimenti camuffati, che vanno però in quella direzione, come ha confermato Salvini), confermato l’innalzamento del tetto del contante a 5mila euro, fine del reddito di cittadinanza. Poco o nulla, se non addirittura qualche taglio mascherato, per scuola e sanità. I governatori delle Regioni hanno già lanciato l’allarme: “Gli ospedali spenderanno 1,7 miliardi in più per l’energia, che si sommano ai circa 4 miliardi per l’emergenza pandemica, ma gli aumenti del governo saranno inferiori. Bisogna evitare disavanzi e piani di rientro”. Intanto, sembra di capire che gli aiuti per il caro benzina dureranno solo tre mesi.

Siamo insomma di fronte a una manovra “mimetica” in tutti i sensi. Da una parte, perché non tocca (anzi sembra incrementare le spese militari, come potremo verificare dal testo ufficiale quando sarà pronto) e, dall’altra, perché indossa abiti da camuffamento. Per non scontentare la fascia di elettori tra gli autonomi, la legge di Bilancio conterrà provvedimenti che favoriscono le partite Iva e i commercianti; mentre la tanto decantata flat tax per tutti i lavoratori viene lasciata nei cassetti per tempi migliori, che probabilmente non arriveranno mai. E questo forse è anche un bene, perché tutti i calcoli degli esperti avevano messo in evidenza il rischio di introdurre ulteriori diseguaglianze con la “tassa piatta”. Da quest’anno, il tetto per la flat tax per le partite Iva sale a 85mila euro.

Opposizione insieme “ideologica” e “nel merito”

Un’opposizione che si rispetti, in parlamento e fuori, dovrebbe essere “ideologica”, come si dice con un termine piuttosto approssimativo, e al tempo stesso “nel merito”. Per esempio, Giorgia Meloni, che ha studiato le lingue, si è autodefinita una underdog – una “sottocane”, si potrebbe tradurre alla lettera, un po’ per ridere, pensando alla sua discendenza da “cani” di ben altra rabbiosa violenza. Più precisamente, una “svantaggiata” o addirittura una “diseredata”: una persona che non ha santi in paradiso, come si direbbe a Napoli, che cioè si è fatta da sé e viene dal basso. Bene, un discorso che apparirà ideologico consiste nel sottolineare come un regime reazionario di massa derivi proprio dalla combinazione dei due aspetti: dal sovversivismo delle classi dirigenti, come lo chiamava Gramsci, pronte a correre qualsiasi avventura pur di difendere i propri interessi (nel caso italiano odierno si tratta soprattutto del blocco borghese del Nord, che vota indifferentemente per la Lega o Fratelli d’Italia), e dal rampantismo di qualcuno proveniente dai ceti popolari. Una ragazza della Garbatella cresciuta senza padre, in questo senso, è perfetta. Su di lei possono proiettarsi e convogliarsi tutte le frustrazioni – anche una femminile volontà di rivalsa priva di femminismo – che la nostra società produce e riproduce senza posa. Tuttavia, questo è il punto, secondo l’interesse prevalente degli altri, ossia di quelle classi dirigenti che intendono lasciare invariato lo status quo. Sembra una rivolta – ed è una conferma degli equilibri esistenti.

L’amalgama scomposto dei più poveri con i più ricchi, o tra chi ha potere e chi non ne ha, è infatti il segreto dei populismi contemporanei. Di essi Meloni, in Italia, non è che il più recente avatar – avendo il nostro Paese conosciuto, con il partito azienda di Berlusconi, ormai quasi trent’anni fa, l’irruzione nella scena politica di un populismo mediatico e privatistico: qualcosa che, con l’apporto della Lega (Umberto Bossi, come Meloni, era anche lui un “figlio del popolo”), confermava gli interessi di quelli che, come si sa, tendono a pagare meno tasse possibile, mettendo i propri dipendenti in una condizione di “servitù volontaria” grazie all’attivismo del loro “fare impresa”.

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Perché Elena Ferrante spiega meglio dei classici la questione meridionale odierna

Un partito “geniale”: più di Gramsci, forse è la Ferrante, con i suoi romanzi dell’“amica geniale”, a spiegarci come si attraversi individualmente il tunnel dell’emancipazione dalla miseria. Dopo averla tanto reclamata o sollecitata, ecco che torna a esplodere la questione meridionale. In realtà né Gramsci, né Rocco Scotellaro, né Guido Dorso, o perfino lo stesso De Mita, la riconoscerebbero. I tratti delle dinamiche che hanno portato il Mezzogiorno ad affidarsi a un impasto di neocorporativismo dell’assistenza, con il voto di massa ai grillini, combinato con una richiesta di tutela anti-europea per quello alla Meloni, sfuggono alle categorie tradizionali. La distorsione del modello di sviluppo, la prevaricazione nordista, il fallimento delle classi dirigenti locali, sono sempre motivi di lamentazione – ma stanno sullo sfondo rispetto a una diretta ed esplicita negozialità di ogni singolo elettore, di ogni figura sociale che cerca l’interfaccia con le istituzioni per contrattare il proprio reddito.

Più che i sacri testi sociologici o ideologici, perciò, potrebbe aiutarci l’opera di Elena Ferrante. Oggi forse diventa più nitido e decifrabile il valore di quella narrazione asciutta, scevra da luoghi comuni, ma soprattutto intrisa di una visione socio-antropologica della vita vera nel Mezzogiorno, a Napoli, nei quartieri del trionfo grillino. Un’allegoria perfetta di quelle trasformazioni, in cui la miseria diventa riscatto individuale, contorsione e adattamento per trovare una via di fuga dal quartiere, dalla condizione subalterna, ma sempre soli, separati dal resto. Il tunnel, che nell’immaginaria urbanistica del racconto congiunge il quartiere dei poveri alle zone dei ricchi, viene attraversato uno alla volta, e spesso si torna indietro, per reinvestire nel quartiere il proprio momentaneo benessere.

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