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Majorino segretario!

Ma davvero vogliamo continuare come se nulla fosse accaduto? La sventola incassata a Sagunto (Lombardia e Lazio), mentre a Roma si discute, non lascia spazio a dubbi. Anche il congresso in corso è ormai nomenclatura del passato, come i candidati che lo stanno animando, con i soliti reciproci colpi bassi, soprattutto nelle federazioni meridionali. Allora ci vuole una mossa del cavallo, che non sia di mera furbizia, ma che coniughi contenuti e rappresentatività. Per questo vogliamo comprometterci con una proposta: Majorino candidato unitario alla segreteria.

I dati della Lombardia, al di là della squillante sconfitta, parlano anche di significativi punti di resistenza, e anche di ricostruzione. Majorino ha complessivamente fatto avanzare i consensi al Partito democratico rispetto alle ultime politiche, ma è la geografia del voto che incute un certo ottimismo. Proprio nella disfatta generale vedere le grandi città della regione – Milano, Bergamo, Brescia – confermare con tenacia il proprio sostegno al Pd, rinunciando non solo alle suggestioni della destra governativa, ma anche alle sirene di un “terzo polo” che proprio in quelle città giocava la carta di una candidata forte e di rottura con la maggioranza che aveva governato il Pirellone. Eppure il Pd rimane primo partito in quelle realtà.

Sanremo ma non più Sanremo

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Il ritorno degli anarchici

“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”, direbbe il poeta leggendo le cronache di queste settimane. Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico recluso al 41/bis in sciopero della fame e quindi in precarie condizioni di salute, sta facendo affiorare una realtà probabilmente destinata a non esaurirsi rapidamente. La protesta innescata dall’anarchico si sta caricando di significati oscuri e ambigui, che vedono i gruppi malavitosi accodarsi a una spinta contro l’istituto del 41/bis, che ha stroncato quell’attività di collegamento che i criminali riuscirebbero a gestire attraverso la porosità delle carceri nazionali. Ma il caso personale di Cospito è diventato testimonial di una protesta più generale; ed è davvero singolare come proprio l’interessato, che avrebbe ragioni e anche convenienza a separare la propria vicenda da quella dei boss mafiosi, stia facendo di tutto per trasformare le legittime richieste di associazioni e intellettuali, perché sia assicurato un trattamento più umano e garantista a un detenuto quale l’anarchico, in una crociata contro l’idea stessa di carcerazione speciale.

Ma in questa spirale, in cui ovviamente le contorsioni di un governo di destra appaiono ancora più sospette e pelose, come lo sguaiato duo Delmastro-Donzelli ha dimostrato, alzando un polverone indecente contro la trasparente azione dei parlamentari del Pd che volevano sincerarsi direttamente delle condizioni di salute di Cospito, magari per coprire preventivamente collusioni e contiguità che componenti anche nazionali del partito della Meloni hanno mostrato rispetto alla malavita organizzata, emerge anche un dato più squisitamente politico, su cui sarebbe utile aprire una riflessione.

“La Giunta”: un album troppo di famiglia

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I funerali di Ratzinger: una piazza con le scarpette rosse

Una piazza piena, quella raccolta a Roma attorno al feretro di Ratzinger, densa e commossa, ma anche rivendicativa: una comunità per nulla piangente e rassegnata, che non congeda il proprio papa ma vuole usarlo. Che piazza era quella? Con il cuore spezzato, come ha detto, non senza malizia, il segretario particolare del papa emerito, Georg Gänswein, commentando oggi la sua reazione nei confronti della decisione di Francesco di regolamentare e limitare l’uso della celebrazione della messa in latino. Più di un aneddoto, una vera e propria dichiarazione di guerra al corso del papa in carica. Dunque una piazza conservatrice se non proprio reazionaria?

Certamente una piazza non conciliarista, per nulla in sintonia, ancora dopo sessant’anni, con il messaggio di quella straordinaria apertura capace di sintonizzare la Chiesa con il mondo. Non poche erano le scarpette rosse che ecclesiastici o semplici fedeli hanno esibito per manifestare la propria adesione a quello che riconosce come univoco messaggio del papa tedesco, che usando quelle scarpette simboleggiava il sacrificio, fino al sangue, per la propria fede. È questo oggi il segnale che sale da San Pietro. E non si tratta più di una testimonianza muta o implicita, o indiretta, ma di una parola ad alta voce. Anche perché – ed è la novità che interroga tutti noi – dal Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa inseguiva un mondo che si era messo a correre – e che di lì a qualche anno avrebbe vissuto l’esperienza di un Sessantotto anche ecclesiale, con le diverse pratiche di dottrine della liberazione – il mondo contemporaneo, con la stessa foga, marcia in una direzione del tutto opposta.

Cosa dice alla sinistra la scomparsa di papa Ratzinger?

Ma cosa pensano a sinistra dell’eredità di papa Benedetto XVI? Possibile che i candidati alla leadership del Pd non abbiano alcuna sollecitazione a riflettere su un’eredità per nulla scontata? Bonaccini, Schlein, De Micheli e Cuperlo, che si candidano a guidare una formazione in cui l’impronta cattolica non è certo marginale, non ritengono di farci sapere come leggono quel messaggio? Tanto più che la scomparsa del papa emerito genera un certo imbarazzo, sia in Vaticano, dove la convivenza fra due vicari di Cristo non è mai stata considerata un elemento granché sostenibile, sia nella società civile e politica italiana, che vede nei due pontefici simboli e riferimenti di un dualismo dottrinario e di messaggio sociale molto distanti se non contrapposti.

Nella fase finale del suo pontificato, Benedetto XVI fu addirittura destinatario di una lettera da parte di esponenti significativi della sinistra – Tronti, Vacca, Barcellona – che si appellavano al suo magistero etico per salvaguardare i tratti di una società civile occidentale. Immancabile il timbro di D’Alema che, all’elezione di Ratzinger, fece subito sapere il suo compiacimento a nome del partito delle persone intelligenti. Sia la spettacolarità della lettera sia l’opportunismo dei compiacimenti rimasero fugaci frammenti sul mantello di quella storia. Ma forse non sarebbe vano ritornare su quei passaggi con gli interessati, per condividere lo sforzo di confronto con un tale profilo in maniera meno sbrigativa.

Asor Rosa, ovvero la sinistra palindroma

La scomparsa di Asor Rosa ci priva del mito di un lucidissimo e appassionato intellettuale politico – forse il più completo studioso non storicista di una sinistra occidentale di questo Paese – e della legittima aspettativa di attenderci da lui il terzo tomo di un’opera ancora da terminare. In cinquant’anni, dal 1965, data di pubblicazione di Scrittori e popolo, al 2015, quando arriva in libreria Scrittori e massa, il professore di letteratura della Sapienza (che da operaista diventa poi parlamentare comunista e aedo culturale nel contrasto alla svolta di Occhetto, come direttore di “Rinascita”) scandisce, con un percorso denso e spietato, la crisi della sinistra e l’esaurimento di quella potente macchina politica che fu il sistema di egemonia che il movimento del lavoro era riuscito a estendere alla società nel suo complesso, mostrando come, nel tornante del nuovo secolo, il popolo della fabbrica delle città fordiste sia diventato populista, dissolvendosi nel gorgo consumista della massa.

Un percorso fondamentale, che Asor Rosa intercetta leggendo i codici letterari di generazioni di scrittori che accompagnano prima, e si sostituiscono poi ai protagonisti del conflitto sociale manifatturiero. Il conflitto è la vera chiave di volta di tutto il ragionamento di Asor Rosa. Lo spiega lui stesso in una intervista rilasciata nel 2015 a “Repubblica”, all’uscita del suo secondo saggio, Scrittori e massa. Spiega l’autore a Simonetta Fiori: “Lingua e stile nascono dal ripensamento di una lingua e di uno stile di qualcuno che c’era prima. Se non c’è conoscenza, non può esserci conflitto. E se non c’è conflitto, non c’è pensiero nuovo. E se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova rappresentazione”. Riemerge qui il militante di “Quaderni rossi” dei primi anni Sessanta, e poi il promotore di “Classe operaia”, che si stacca da Mario Tronti per ribadire la potenza operaia come classe generale.