Il molto berlusconiano “Giornale”, riprendendo dati della mitica Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, ha recentemente paragonato l’ondata inflazionistica allo spauracchio della patrimoniale. Ma l’inflazione è l’esatto opposto della patrimoniale: colpisce molto più duramente le fasce di reddito medio-basse, inchiodate alle spese obbligate per l’energia e i prodotti alimentari. Secondo i dati diffusi a luglio dall’Istat, è quasi il doppio il salto del carovita per il 20% di connazionali che stanno nella fascia di reddito più bassa, rispetto a quello subìto dal 20% della fascia di reddito più alta: un’inflazione del 9,8% contro una del 6,1 (la media generale è l’8% a giugno stando all’Istat; l’8,6 secondo il Bollettino 3-2022 di Bankitalia).
Per capire cosa significa, si può provare a incrociare questo dato dell’inflazione reale, prossima al 10% per le fasce basse di reddito, con le rilevazioni fatte a suo tempo dalla “Voce.info” nel commentare la riformetta Irpef del governo Draghi: nella fascia 5-28 mila euro “si trova circa il 60% dei contribuenti”. Chi guadagna fra 400 e 2300 euro mensili si trova in tasca quindi, a spanne, fra i 40 e i 230 euro in meno ogni mese. Nonostante tutto, secondo la stima di Bankitalia, “l’erosione del potere d’acquisto, che colpisce in particolare le famiglie meno abbienti, è stata mitigata dai provvedimenti del governo volti ad alleviare il peso dei rincari energetici; nel complesso queste misure quasi dimezzano l’impatto dello shock inflazionistico sui nuclei a più basso reddito”.
L’inflazione, tuttavia, è solo uno degli indicatori dello stato di salute dell’economia nazionale in questa crisi aggravata, anche se non creata, dalla guerra in Ucraina e dalle discusse sanzioni economiche contro la Russia, che al momento non è chiaro chi abbiano danneggiato maggiormente, se Mosca o l’Unione europea che le ha varate. “Terzogiornale” si era occupato dell’ondata inflattiva e delle sue radici complesse ben prima del 24 febbraio: per esempio qui.
Qual è dunque l’Italia che il governo presieduto da Mario Draghi ci lascia in eredità? Al di là della personalizzazione estrema delle ultime settimane o degli ultimi mesi, e delle campagne di stampa di sapore nordcoreano sulla crisi politica, può essere interessante mettere in fila un po’ di notizie che alcune delle massime istituzioni italiane – come appunto l’Istat, l’Inps e la Banca d’Italia – hanno reso pubbliche a proposito della situazione del Paese.
La ripresa post-Covid è incompleta
Nonostante le politiche di allentamento progressivo delle restrizioni anti-Covid, le previsioni di crescita sono da rivedere con grande prudenza. Secondo Bankitalia, se la guerra in Ucraina si protraesse per tutto il 2022, senza condurre a una totale interruzione delle forniture energetiche dalla Russia, cioè nello scenario migliore oggi prevedibile, “(…) il Pil aumenterebbe del 3,2% nel 2022, grazie soprattutto alla crescita già acquisita alla fine del 2021, dell’1,3 nel 2023 e dell’1,7 nel 2024”. Bankitalia osserva anche che “le condizioni di accesso al credito sono divenute meno favorevoli” e al contempo “quelle del mercato finanziario italiano sono nettamente peggiorate”. Telegiornali e quotidiani hanno riscoperto lo spread solo con la crisi di governo, ma per l’istituto di via Nazionale “il rendimento del titolo di Stato decennale e lo spread rispetto al corrispondente titolo tedesco si sono ampliati in un contesto di alta volatilità dei mercati; il brusco aumento del differenziale non appare giustificato dalle condizioni macroeconomiche di fondo. I costi di finanziamento sui mercati per le imprese e le banche sono saliti e i corsi azionari sono diminuiti”.
Altro elemento che suscita qualche preoccupazione, tra i funzionari della Banca centrale, è la bilancia dei pagamenti: “Il saldo di conto corrente è diventato negativo, soprattutto a causa del peggioramento della bilancia energetica”. Bankitalia e Inps concordano su una crescita modesta dell’occupazione, sebbene la ripartenza ci sia stata. “Le ore lavorate totali hanno accelerato all’inizio del 2022 nel confronto con la fine dello scorso anno, in particolare per effetto del recupero di quelle per addetto, tornate ai livelli pre-pandemici. Il numero degli occupati è aumentato lievemente, riflettendosi in una riduzione del tasso di disoccupazione; emergono tuttavia segnali di rallentamento della crescita delle posizioni lavorative nel secondo trimestre”, si legge nel Bollettino. Gli analisti dell’Inps, nel Rapporto annuale dal titolo “Conoscere il Paese per costruire il futuro”, evidenziano luci e ombre: “Gli assicurati all’Inps (dipendenti e indipendenti) nel 2021 sono aumentati – anche rispetto al 2019 – raggiungendo quota 25,683 milioni. Trainante è stata la crescita dei dipendenti sia pubblici che privati, inclusi i domestici (per effetto della regolarizzazione attivata nel 2020 con circa 100.000 ‘emersi’) e con l’eccezione degli operai agricoli. Tra gli indipendenti è proseguito il trend di lenta e continua erosione per artigiani, commercianti e agricoli autonomi mentre in crescita o stabili risultano le componenti del lavoro parasubordinato afferenti alla Gestione Separata (amministratori, collaboratori, ecc.). In termini di volume di lavoro, il recupero non si è ancora completato: nel 2021 gli assicurati hanno lavorato in media 42,1 settimane pro capite contro 42,9 nel 2019”.
L’ossessione del reddito di cittadinanza
Inevitabile, in questa rapida rassegna, toccare un tema oggetto di una ossessiva campagna di stampa: il reddito di cittadinanza. Lo stesso Draghi, nel suo intervento al Senato il 20 luglio, è tornato a ipotizzare che andasse “migliorato” per “ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”. Un’allusione ai famosi “fannulloni da divano”, sorprendente visto che in teoria era a caccia di una rinnovata fiducia anche da parte dei sostenitori della legge. Un punto di vista, quello di Draghi, che non sembra però suffragato dai dati contenuti nel Rapporto Inps. “Nei primi tre mesi del 2022 – si legge nel documento – i nuclei familiari beneficiari sono stati pari a circa 1.5 milioni, con circa 3.3 milioni individui coinvolti. L’importo medio mensile erogato (a marzo 2022) è stato di 548 euro. Le caratteristiche dei nuclei beneficiari si sono ormai stabilizzate nel tempo (nonostante un graduale declino nella dimensione media dei nuclei familiari, passati da 2.45 componenti nel 2019 a 2.23 nel 2021), confermando che un terzo dei percettori è costituito da minori e anziani (over 65) e che, come evidenziato dal precedente rapporto annuale Inps, solo il 33% dei percettori in età lavorativa ha un riscontro amministrativo di partecipazione al mercato del lavoro negli anni 2018 o 2019”. In sostanza, l’Inps dice due cose: due terzi dei beneficiari è fuori dal mercato del lavoro e il reddito di cittadinanza non c’entra nulla; le cifre medie erogate non sono concorrenziali rispetto a un reddito da lavoro.
Degno di nota, nella replica di Draghi a palazzo Madama, il nuovo attacco al superbonus, misura “ambientalista” che ha pompato l’economia dell’edilizia, ma che il suo governo ha sostanzialmente avviato al macero. “Quanto al superbonus, sapete – ha rivendicato il presidente del Consiglio dimissionario – quello che ho sempre pensato in proposito, ma il problema non è il superbonus, sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati. Chi ha disegnato quei meccanismi di cessione, senza discrimine e senza discernimento, è lui (o lei, o loro) il colpevole di questa situazione, in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti”.
Dunque non le frodi, la cui dimensione era stata alquanto enfatizzata, ma il meccanismo della cessione dei crediti è sempre stato nel mirino del suo governo. L’ipotesi che questo provvedimento fosse visto con sospetto per la sua funzione quasi di “moneta parallela” proprio a causa della cedibilità dei crediti era stato oggetto, a suo tempo, anche dell’interesse di “terzogiornale”. E l’uscita di Draghi sembra rafforzarla.
Nel discusso (poco in Italia, tradizionalmente anestetizzato rispetto ai dibattiti più seri animati dalla stampa internazionale) rapporto dei G30 sulla ripresa post-Covid, il gruppo di banchieri ed economisti coordinato da Mario Draghi lanciava l’allarme, nel dicembre del 2020, sul rischio di eccessivi interventi pubblici di salvataggio che avrebbero potuto creare “una nuova ondata di aziende zombi, con dannose conseguenze per le prospettive di ripresa economica”. L’esperienza del governo Draghi ha dimostrato, apparentemente, che nemmeno un ferreo custode dell’ortodossia come l’ex presidente della Bce può permettersi di lasciar fare del tutto ai mercati nel selezionare le aziende che hanno prospettive di vita da quelle (gli “zombi”) che si possono lasciar morire, nel pieno di una tempesta come la crisi suscitata dalla pandemia. Draghi ha trattato perfino sui “balneari”! Chi oggi si intesta “l’agenda Draghi”, quindi, di fronte agli elettori avrà l’onere di spiegare quale modello di sviluppo ha in mente, quali settori di investimento punta a potenziare, quali equilibri fra pubblico e privato intende perseguire. A partire dalla realtà concreta del Paese – che nessun uomo (o, in futuro, donna) della Provvidenza è in grado di risanare con la sola imposizione delle sue pur prestigiose mani.