Emmanuel Macron è riconfermato alla presidenza della Repubblica con una percentuale – oltre il 58% – anche più alta delle previsioni della vigilia. L’elettorato di sinistra, da cui l’esito del ballottaggio dipendeva, ha dimostrato una maturità e una sagacia maggiori di quelle dei dirigenti di tutti i partiti della gauche. I fatti, del resto, stano lì a dirci che, con un accordo programmatico preventivo anche minimo, una coalizione di sinistra avrebbe potuto portare un proprio candidato al secondo turno e forse vincere, se si pensa alla diffusa sfiducia di cui è oggetto oggi Macron, che può cantare vittoria solo grazie al fermo “no” opposto dalla Francia a una sua “orbanizzazione” con Marine Le Pen.
Si guarda ora a quello che può essere considerato il “terzo turno” delle elezioni presidenziali in giugno, cioè al voto per rinnovare l’Assemblea nazionale. È uno dei “segreti” della ricetta del semipresidenzialismo francese, questo meccanismo che fa sì che un capo dello Stato, pur eletto con ampio margine, possa poi non avere la maggioranza dei seggi in parlamento. La volta scorsa il partito personale messo su da Macron, con il brutto nome di “La Repubblica in marcia” (verso dove?), in virtù della presunta novità del personaggio (non dimentichiamoci, però, dei numerosi transfughi provenienti dal Partito socialista e dell’alleanza, che dura tuttora, con il centrista Bayrou), conquistò una solida maggioranza che negli scorsi anni gli ha permesso di governare agevolmente – anche se gli esecutivi hanno visto nei posti chiave personaggi provenienti dalla destra “classica” di matrice gollista, con il proposito di sgretolare questo polo dello schieramento politico dopo avere sgretolato quello socialista. Privo oggi di qualsiasi “luna di miele” con l’elettorato, per il presidente riconfermato si prospetta una sconfitta. Tutti, a destra come a sinistra, affilano le armi per costringerlo a una “coabitazione” (espressione tipica del lessico politico francese che indica la compresenza, al vertice dello Stato, di un presidente della Repubblica e di un primo ministro di diverso colore).
Al primo posto tra questi, c’è naturalmente l’eterno candidato Mélenchon, che ha già chiesto ai francesi un voto per mandarlo a Matignon – il palazzo parigino sede del primo ministro –, così da fare da contrappeso all’Eliseo. Macron si troverebbe in questo modo impossibilitato a portare avanti le sue controriforme (prima tra tutte quella delle pensioni), con un governo di sinistra che abbia una maggioranza all’Assemblea nazionale.
L’ipotesi non è affatto peregrina. Purtroppo, però, l’uomo meno indicato per aspirare a quel ruolo è proprio Mélenchon: per la semplice ragione che ha puntato sulla divisione a sinistra, e su una personalizzazione forsennata, per proporsi lui come quel “voto utile” che avrebbe potuto evitare il secondo ballottaggio consecutivo, che invece poi c’è stato, tra Macron e Le Pen. Il sistema elettorale francese, in sé molto coerente, è basato nei collegi su quello stesso maggioritario a doppio turno che vale per le elezioni presidenziali. Una sinistra di qualsiasi tipo deve farsi forte di un accordo preventivo per vincere nel maggior numero di collegi – assegnati per lo più con i ballottaggi, tra due e spesso anche tre candidati –, prevedendo eventualmente la desistenza, al secondo turno, di un candidato a favore di un altro meglio piazzato. In assenza di patti del genere, è impossibile – oggi come oggi, con una sinistra molto frammentata – giungere alla conquista di una maggioranza parlamentare. Si consideri che il partito di Mélenchon – arrivato come candidato alla presidenza, la volta scorsa, al 19% – ha solo diciassette deputati; e il Partito socialista, che alle “legislative” del 2017 era caduto a uno dei punti più bassi della sua storia, ventinove. Cioè niente su un numero complessivo di 577 seggi.
Un’intesa limitata al Pcf e ai verdi, già prospettata da Mélenchon, potrebbe non essere sufficiente. Il Partito socialista – che l’ex socialista Mélenchon vorrebbe puramente e semplicemente rimpiazzare – è da anni in coma profondo, ma pare risvegliarsi nelle elezioni locali e nei territori, su cui sono centrati i collegi, perché i suoi “notabili” hanno ancora un radicamento. A voler mettere fuori il Partito socialista (pur senza considerare il peso “storico” di una tale scelta), mirando tatticamente al suo elettorato, come già è stato fatto con la pretesa del “voto utile” alle presidenziali, si rischia di nuovo il patatrac. Un elettorato volatile potrebbe fare la differenza nei ballottaggi andando sul candidato antimacronista meglio piazzato, che potrebbe anche essere quello lepenista. Ancora una volta, una sinistra divisa rischia di cedere il passo all’estrema destra.
È la iattura della personalizzazione melenchoniana e del suo “populismo di sinistra”, il fatto che non si possa avere alcuna chiarezza su che cosa, in fin dei conti, dovrebbe essere un governo di coabitazione con Macron. Bloccare le sue controriforme, d’accordo, ma poi? Nella politica estera, per esempio, l’esecutivo non ha pressoché alcuna voce in capitolo, trovandosi quella sotto la responsabilità diretta del presidente della Repubblica. Proprio questo bonapartismo implicito nel sistema politico francese, dovrebbe spingere, in ogni situazione, a precisare una linea di unità a sinistra, sia pure limitata ad alcuni punti comuni. Se infatti si ripercorrono le orme della personalizzazione (per giunta con una buona dose di livore nei confronti del proprio ex partito), si realizzano tutt’al più delle esplosioni pirotecniche, non si vincono le elezioni a nessun livello.