
Con Pasolini giornalista. Vita e morte di un cottimista della pagina (edito da Effigie), Giovanni Giovannetti rimedia a un vuoto trascurato troppo a lungo: realizza una mappatura degli scritti di Pasolini su giornali e periodici, compresi quelli rimasti fra le pieghe del discorso biografico e letterario. E fa di più: a partire da questo, accompagna nel lungo percorso dello scrittore, dagli esordi, all’inizio degli anni Quaranta, sino alla tragica morte nel 1975.
Diciamo subito che Giovannetti, fotografo e autore di immagini dense, prensili, scattate qualche settimana prima del delitto di Ostia, si tiene alla larga da qualsiasi agiografia. In più di trecento pagine, non solo ripercorre la storia di Pasolini insieme a quella della società italiana, ma riesce a presentare senza falsi riguardi anche i lati spiacevoli e i vicoli ciechi del personaggio. Dalla lontana collaborazione a riviste fasciste sino a discutibili contatti con Pannella e Andreotti; dagli articoli d’occasione più polemici e sfrontati sino alle dichiarazioni pubbliche volutamente provocatorie. Lo scrittore ne esce più umano, più comprensibile nelle sue contraddizioni, e insomma frequentabile senza il fardello di letture sdolcinate.
Anche le oltre centocinquant’immagini, comprese quelle realizzate dall’autore, contribuiscono alla ricostruzione di un lungo viaggio, sicché il volume si lascia maneggiare con un’agilità di frequentazione che alleggerisce la mole ponderosa di dati. L’attenzione al libro grosso, a Petrolio, è minuziosa e robusta, perché Giovannetti ha rigore nel rimettere in ordine le cose, rispetto a tutte le edizioni realizzate negli anni. Compresa l’ultima, quella del 2022, che sembra completa ma è incrinata anch’essa da qualche imprecisione significativa. Il punto nevralgico della questione riguarda la posizione, tipografica e semantica, di alcuni testi originali di Eugenio Cefis, che Pasolini avrebbe voluto inseriti nel romanzo e che hanno fatto fatica a prendere il loro posto corretto. Per un cortocircuito atroce fra sperimentazione letteraria e militanza civile, cioè fra opera e vita, oggi diventano un valore aggiunto dello scottante testo pasoliniano e insieme un vettore significativo nella dinamica della morte del suo autore.
Ammettiamolo. Quel delitto tremendo di mezzo secolo fa ci intossica ancora come un veleno. È una scimmia svergognata che ride sulle spalle della cultura italiana. Da decenni c’è una coscienza divisa – teniamo da parte i commenti compiaciuti per la “fine da frocio” – fra atteggiamenti riduzionisti, banalizzanti, e disinvolti assemblaggi di congetture. In fondo, e da questo Pasolini giornalista si distanzia di netto, su quel crimine sabbioso e novembrino le versioni comode e quelle cervellotiche pescano insieme, si può dire all’unisono, nel caso clamoroso in odore di cronaca nera, per confezionare rami diversi di una stessa letteratura di genere. Va detto, però, che non tutta quella produzione si rivela ugualmente redditizia per i suoi autori; sulla morte di Pasolini le versioni timide sembrano quelle gradite, anche negli ambienti dell’industria culturale, mentre quelle che cercano approfondimento finiscono per mettere in cattiva luce chi le propone.
Giovannetti – forse proprio perché fotografo? – sa usare il grandangolo. Così fa vedere ambiguità e doppiogiochismi nell’Italia occupata dai tedeschi, poi afferra lo zoom e stringe sino a fatti degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, in un vorticare di figure messe a fuoco senza preavviso. Ecco fascisti implicati in patti loschi, criminali comuni che reggono il gioco al potere politico per gli incarichi sporchi, “mondi di mezzo” stratificati oltre ogni prevedibilità, persino qualche magistrato e criminologo da collocare nello scenario del potere romano.
Vale la pena prendere in considerazione il materiale ricco portato a sostegno dell’interpretazione dell’omicidio. Pasolini giornalista ci vede una pluralità di interessi pesanti, riferibili al più spregiudicato notabilato e compiaciuti che fosse silenziato un intellettuale scomodo. Ma soprattutto vede campeggiare la presenza ingombrante, ampia e badiale, di Eugenio Cefis, che oltre a essere un affarista – dello Stato e per suo conto personale – era un ex partigiano. Era anche un uomo proveniente da quel Nord-est in cui lo stesso Pier Paolo era cresciuto, e in cui il fratello Guido aveva partecipato alla Resistenza, per poi cadere, sul finire della guerra, per mano di partigiani comunisti. Cefis, in particolare, era interessato a evitare l’uscita di Petrolio, un libro della cui gestazione, caparbia e viscerale, molti erano al corrente.
Quanto alla progettazione e realizzazione concreta della soppressione dello scrittore, Giovannetti riprende lo schema della catena oscura nella formazione di una decisione e nella trasmissione degli ordini; un nesso che collega ambienti insospettabili, esecutori, fiancheggiatori e all’occorrenza depistatori. Calarsi in quegli anni significa lambire il caso Moro, la banda della Magliana, la loggia P2 e molto altro, per disegnare una rete di cointeressenze che è bene soppesare.
Fra i meriti del volume c’è la presentazione di una vasta messe di dati e connessioni che propongono senza impegnare, e che a volte si limitano a offrire spunti di riflessione e accostamenti, per favorire una lettura critica degli elementi, da sviluppare in varie direzioni.