
Chi è il nuovo papa? Davvero è un papa statunitense? Questo vuol dire che l’Offerta pubblica di acquisto, lanciata da Donald Trump sulla Chiesa cattolica, è stata accolta? No. Papa Leone XIV ha in tasca un passaporto peruviano, visto che ha la cittadinanza del Paese dove lo inviò come vescovo Bergoglio prima di chiamarlo a Roma come prefetto della potente congregazione che si occupa dei vescovi. Negli Stati Uniti è nato, ma quelli che ha salutato nella loro lingua, affacciandosi dalla loggia delle benedizioni sono stati loro, i sudamericani presenti in piazza. Un papa trumpiano che nella sua prima apparizione parla in spagnolo – azzardo che non si era preso neanche il suo predecessore – sembra voler dire che l’Offerta pubblica di acquisto, più che accolta, sia stata respinta nel modo peggiore per il proponente: adesso negli Stati Uniti non c’è solo un potere politico imponente, ma anche un potere spirituale a lui “resistente”.
La pace che Prevost ha posto al centro del suo primo discorso pubblico, non è la pace dei forti proposta da Trump, non è la pace del più forte, che la impone quasi con il noto “guai ai vinti” di romana memoria; è la pace di tutti e per tutti nelle parole chiarissime e assai divergenti del nuovo vescovo di Roma. Così la continuità con Francesco, impossibile per un trumpiano, emerge anche da quel poco che sappiamo del nuovo papa, in particolare da un’intervista, tra le poche che ha dato nei mesi trascorsi a Roma, nella quale il cardinale Prevost sottolineava che il vescovo, la materia di cui si occupava a Roma, non deve essere un principe ma un servitore: tutt’altro che trumpiano, più bergogliano, appunto. Oltre alla sua storia vescovile, vissuta da missionario in America latina, emerge il tratto che più di altri lo avvicina al suo predecessore, il certificato di garanzia di non essere un cedimento a Trump e alla Chiesa dogmatica, arcigna, patriottica da lui invocata: come Francesco, infatti, è figlio di migranti. Un fatto non insolito negli Stati Uniti, ma importante nell’epoca della “grande deportazione”.
Si continua così a scorrere il suo primo discorso – e il non molto che si sa di lui – ed emerge sulla dottrina sociale, marchio di fabbrica del suo pontificato, visto che si è chiamato come l’autore della prima enciclica sociale, Leone XIII, che ha espresso idee in tutto simili al suo predecessore. E poi, a differenza del decano del collegio cardinalizio che ha preso in mano la Chiesa dal momento della morte di Francesco, pronunciando sia l’omelia funebre sia quella pro eligendo pontifice, il nuovo papa ha voluto subito citare la grande svolta avviata da Francesco, la trasformazione della Chiesa da Chiesa gerarchica e piramidale in Chiesa sinodale, cioè non più clericale, ma dove i laici cattolici sono coinvolti nella sua gestione e nei processi decisionali. Il decano, cardinale Re, figlio e prodotto fedele della visione dei depositari del potere romano, questa sinodalità nelle sue due omelie non l’aveva mai citata, mentre papa Prevost, l’americano, l’ha citata subito: come a dire che si va avanti anche su questo decisivo aspetto, che molti speravano di archiviare subito.
Insomma, dai primi passi e dalla sua storia emerge più Bergoglio che Trump nel background del nuovo papa. Chi vuole etichettarlo come prodotto di un compromesso tra “destra” filo-Trump e bergogliani moderati sembra – dico sembra – esprimere il proprio desiderio più che la realtà da fuori visibile. Il compromesso che lo ha eletto è stato questo? Può essere, ma non è un fatto raro che un papa si discosti dagli auspici di chi ha creduto che si identificasse con i suoi “progetti”. Che la Chiesa cattolica faccia emergere oggi, in un mondo scombussolato e spaesato davanti all’America trumpiana e ai suoi voltafaccia, davanti a valori che si ritenevano consolidati, un’altra America, solidale, amica, amante della pace, “disarmata e disarmante”, come ha detto Prevost, è forse una bella e inattesa novità.
Ma è probabile che non ci sia solo continuità. Sui temi che in Vaticano definiscono “sensibili”, come se quelli sin qui citati non lo fossero, cioè omosessualità, apertura ai divorziati risposati, fine vita e tanto altro, ci potrebbe essere nel nuovo papa più moderazione, più riflessività e qualche dubbio rispetto al suo predecessore, al quale il mondo laico ha offerto e dato così pochi aiuti nel suo grande lavoro di rinnovamento e apertura ecclesiale. La “laicità” è stata più arcigna della Chiesa, su questo, negli anni passati, non ha apprezzato o capito fino in fondo quanto di epocale veniva detto e fatto dal Vaticano, e ora potrebbe rendersene conto, come sempre con colpevole ritardo. Chissà.
Una discontinuità comunque c’è, emerge dall’abbigliamento. Papa Prevost ha rimesso sul suo corpo i simboli romani, imperiali, quel rosso a cui i pontefici hanno sempre tenuto per indicare un’affinità con l’imperatore, con Roma-impero. Quel rosso Bergoglio lo aveva accantonato, alcuni dicono che lo abbia fatto dicendo “è finito carnevale”: non lo sappiamo. Certo, quella pagina è archiviata, il papa torna sul suo trono, sia pure con una cultura simbolo di servizio più che di potere, ma questo è. Dunque un papa più attento all’interno, agli equilibri, alle compatibilità, alle trame ecclesiali. Era necessario, probabilmente, per mettere a terra le grandi riforme bergogliane, renderle fatti ecclesiali concreti, realizzati. Questo è quello che sembra emergere. Ma l’Offerta pubblica di acquisto di Donald Trump è stata respinta, le Chiese patriottiche, da lui auspicate, non emergeranno. La Chiesa cattolica resta la sola istituzione universale, globale, in questo mondo lacerato.