
“C’è del marcio in Danimarca”. È proprio il caso di prendere in prestito da Shakespeare questa citazione famosa: non ci sono infatti parole migliori per definire ciò che è successo e sta succedendo nel piccolo Paese scandinavo (vedi qui), governato dal 2019 dalla socialdemocratica Mette Frederiksen, da qualche giorno alla guida del Consiglio dell’Unione europea, ruolo che ricoprirà per un intero semestre. Filoisraeliana, e dunque lontanissima dal riconoscere lo Stato di Palestina (a differenza delle vicine Norvegia e Svezia), iperbellicista al punto da inviare tutta l’artiglieria danese all’Ucraina, in prima linea sull’aumento delle spese nazionali per la difesa richieste dalla Nato, ha realizzato come se non bastasse una riforma della leva militare, passata da quattro a undici mesi, divenuta obbligatoria anche per le donne maggiorenni.
Ma il tema – di cui appunto abbiamo parlato già qualche anno fa – è quello dell’immigrazione. Un fenomeno che andrebbe affrontato con intelligenza e sensibilità, doti che mancano alla premier dal pugno di ferro e al partito che dirige. Del resto, il suo arrivo alla guida dell’Unione non poteva capitare in un momento migliore per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Layen, anch’essa fautrice del massimo rigore contro gli immigrati, che in Danimarca sono poco meno di seicentomila a fronte di una popolazione di circa sei milioni di abitanti. Una percentuale simile a quella degli altri Paesi europei, che non dovrebbe far gridare all’emergenza. Ma tant’è. Ormai in Europa è in atto una vera e propria crociata contro chi arriva per fuggire da guerre o da condizioni di vita insostenibili.
Il tema, ben noto, riguarda gli accordi sui rimpatri e la ricerca di Paesi “sicuri” – le virgolette sono d’obbligo – in cui spedire uomini, donne e minori. Insieme alla premier italiana, Giorgia Meloni, Frederiksen e von der Leyen sono le principali sostenitrici della ricerca di una “soluzione innovativa”, che mette a rischio il sistema della concessione dell’asilo politico finora garantito.
Con un linguaggio consono a una leader di estrema destra – zona politica in cui si troverebbe probabilmente più a suo agio –, Frederiksen sostiene che chi arriva da fuori commette reati gravi, non rispetta lo stile di vita dei danesi, e quindi non dovrebbe trovare spazio in Europa. Affermazioni che mettono a rischio la stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, trattato firmato a Roma nel 1950, a tutela di diritti fondamentali quale la libertà individuale. Senza contare la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati, che fu proprio la Danimarca a firmare, nel 1952, come primo Paese al mondo.
La distribuzione degli immigrati qua e là per il pianeta – in Stati che hanno bisogno di soldi – è una vera e propria fissazione per la socialdemocratica, da quando è alla testa del governo, dal 2019. Paesi terzi considerati sicuri sulla base di criteri spesso imbarazzanti, gli stessi messi duramente in discussione, in Italia, dalla magistratura (vedi qui) che si è rifatta alla sentenza dello scorso 4 ottobre della Corte di giustizia europea, secondo la quale un Paese, per essere definito “sicuro”, non deve discriminare, torturare e perseguitare i propri cittadini. Aggiungiamo – altro segnale negativo – che nove Stati si erano espressi contro il Consiglio d’Europa, reo di richiamare al rispetto dei diritti e della dignità dei migranti. Nel parlamento europeo le linee guida sull’immigrazione dovrebbero passare con una maggioranza guidata dai popolari, ormai spostati a destra – ma ci auguriamo senza il consenso del gruppo dei socialisti e democratici, al cui interno, tuttavia, trovano ovviamente posto anche i socialdemocratici danesi.
Tra parentesi, il sostegno dei socialisti e democratici europei alla presidente della Commissione, che è appunto un’esponente dei popolari, sarà messo domani alla prova anche rispètto alla mozione di sfiducia presentata da Gheorghe Piperea – europarlamentare romeno di estrema destra, del gruppo dei conservatori e riformisti (Ecr) di cui fa parte Fratelli d’Italia – riguardante la presunta mancanza di trasparenza nella gestione dei vaccini Pfizer e nella definizione degli accordi con la casa farmaceutica. Un tema tutt’altro che peregrino, tanto che il gruppo dei socialisti e democratici potrebbe astenersi.
Ritornando a Frederiksen, fin dalla sua nomina aveva cercato di individuare i possibili Paesi ospitanti, tra quelli più poveri al mondo. In un primo momento, si era pensato al Ruanda – ipotesi in seguito abbandonata –, che solo pochi giorni fa ha firmato un accordo di pace con la Repubblica democratica del Congo (vedi qui); poi all’Etiopia, altro Paese perennemente in guerra; e infine al democraticissimo Egitto di al-Sisi, e alla Tunisia del dittatore Saïed (vedi qui), la cui politica xenofoba nei riguardi dei subsahariani si coniuga con una grave crisi economica.
Ma il Kosovo è la ciliegina sulla torta. Già la storia di questa piccola repubblica balcanica non evoca altro che i bombardamenti Nato su Belgrado (1999), i morti tra i civili serbi, la contaminazione da uranio impoverito e altre amenità. Tutto questo per garantire agli albanesi – quelli appunto del Kosovo, che in quella terra sono maggioranza accanto a una minoranza serba – una civile convivenza all’interno di un nuovo Stato, dopo anni di vessazioni subite da parte di Belgrado. Un’armonia tra le due popolazioni che però non si è mai concretizzata. Oltre a non essere riconosciuto da Paesi importanti – come la Russia e la Cina, e diversi Paesi Ue, Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna –, questo territorio di circa diecimila km quadrati, con un milione e ottocentomila abitanti, se non fosse per la presenza di quattromila soldati della missione Nato Kfor (Kosovo Force), conoscerebbe altri sanguinosi scontri tra i due gruppi etnici.
È in questo contesto complicato che la Danimarca vorrebbe deportare circa trecento stranieri, colpiti da un ordine di espulsione per avere commesso crimini in Danimarca, e che dovrebbero essere poi rimpatriati nei Paesi d’origine. Ciò anche per svuotare le carceri danesi a corto di personale. La prigione sarebbe quella di Gnjilane, che Copenaghen si impegnerebbe a ristrutturare per adeguarla – bontà loro – agli standard danesi. Ma il progetto, la cui attuazione è stata rinviata più volte nel corso degli ultimi quattro anni, non è di facile realizzazione. Il Kosovo – come del resto avviene in altri Paesi extraeuropei scelti dalla Danimarca per liberarsi dei migranti – è una terra in cui, secondo le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa, la tortura sarebbe pane quotidiano nel sistema penitenziario, oltre al rischio di abusi e discriminazioni di ogni tipo contro i detenuti. Tra l’altro, c’è chi teme che gli stessi detenuti danesi, quelli più sfortunati, possano fare la stessa fine.
C’è inoltre l’interrogativo sul destino degli stranieri una volta scontata la pena. “Se non possono tornare in Danimarca – si chiede Orjana Demaliaj, direttrice dell’organizzazione umanitaria kosovara Jesuit Refugee Service (Jrs), in un articolo pubblicato dall’“Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa” – né fare richiesta di asilo in Kosovo, cosa succederà loro quando finiranno di scontare la pena?”. Le cose si complicherebbero, in questo caso, perché i detenuti dovrebbero tornare in Danimarca prima di essere rilasciati, a meno di non stipulare nuovi accordi con Paesi terzi in cui i poveretti dovrebbero essere ulteriormente collocati. Ma qualcuno – a pena scontata e in attesa del decreto di espulsione – potrebbe trovarsi in una situazione ad alto rischio. “I fatti – sostiene ancora l’“Osservatorio” – mostrano che, in seguito alla loro espulsione dalla Danimarca, i migranti più vulnerabili possono incorrere in situazioni di precarietà”.
La trovata geniale di spedire gli immigrati e i richiedenti asilo in Paesi bisognosi di denaro (che, tra l’altro, andrebbe a rimpinguare solo le casse dei differenti regimi, il più delle volte corrotti), per liberarsi del problema, mostra la decadenza forse irreversibile del vecchio continente. Fino a non troppi anni fa, infatti, nessuno avrebbe pensato a uno scenario del genere, in cui appaiono come protagoniste, da un lato, un’Europa sempre più lontana dalle virtù delle origini e, dall’altro, le due facce della povertà, quella dei migranti e quella dei Paesi “in via di sviluppo”, che dovrebbero rinchiuderli nelle proprie carceri riservando loro quei trattamenti che si possono immaginare. C’è solo da augurarsi che questo progetto, che fa acqua da tutte le parti, fallisca. Per il momento, però, si vedono all’orizzonte solo nubi difficili da diradare.