
Quando il fumo si dirada dopo un incendio, rimane un odore di bruciato e di marcio. Odore che ultimamente si respira quasi tutti i giorni a Genova, dove si susseguono, uno dopo l’altro, scandali e inchieste legate direttamente o indirettamente alla gestione della città da parte della destra negli ultimi anni, prima del cambio della guardia seguito alla recente tornata elettorale. Lo scandalo del dossieraggio contro la candidata sindaca, Silvia Salis, che vede coinvolto l’ex assessore Sergio Gambino di Fratelli d’Italia, pure implicato nella vicenda dei seggi elettorali per le elezioni regionali collocati nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) e nell’inchiesta per tangenti nella gestione dei minori immigrati non accompagnati, e, da ultimo, la storia inquietante che ha visto coinvolto un gruppo di cantuné della sezione “sicurezza urbana” della polizia municipale.
Li si vedeva girare in centro storico a Genova, vigili relativamente giovani, dall’aria spavalda, bardati come un corpo speciale di élite: pare che fossero specializzati nella caccia spietata ai miseri ambulanti immigrati e ai piccoli spacciatori, ora sono inquisiti in quindici, quelli del gruppetto che si autodefiniva dei “bravi ragazzi”. Accuse pesantucce: nei loro armadietti sono stati trovati, oltre ai micidiali manganelli dall’anima di acciaio – i “tonfa”, tristemente noti per essere stati usati nel massacro dei dimostranti nel 2001 genovese, ma certo non in dotazione alla polizia locale –, anche denaro di origine non chiara e piccole quantità di droga. Con loro, è indagato il comandante, Gianluca Giurato, che sembrerebbe avere fatto orecchie da mercante alle prime segnalazioni di irregolarità.
La stampa locale riferisce dettagli preoccupanti: abusi, pestaggi gratuiti, provocazioni, tutto un repertorio ben noto, quasi uscito da un b-movie poliziesco di destra. Nella chat del gruppo, con sadico umorismo, le botte erogate ai malcapitati che incappavano nei giovani vigili venivano definite “cioccolatini sberlari”, i pestaggi in grande stile “torta Sacher”. Alcune delle vittime di questi trattamenti si sono fatte anche tre settimane di ospedale. La denuncia è arrivata da tre colleghe, stanche di assistere a sbruffonate, soprusi e maltrattamenti inflitti a persone inermi.
Al di là della vicenda in sé – che certamente preoccupa per i suoi risvolti di crudeltà e di violazione dei diritti fondamentali della persona, e per le responsabilità individuali dei protagonisti di questa “Arancia meccanica” in salsa ligure –, si direbbe di toccare con mano le conseguenze immediate del clima politico in cui è stato concepito, a livello nazionale, il “decreto sicurezza” appena entrato in vigore, e dell’aria che ha a lungo tirato anche in Comune a Genova. Occorre ricordare come l’ex assessore alla Sicurezza, Stefano Garassino della Lega, avesse dichiarato, con la finezza che lo ha sempre contraddistinto, che era pronto a “prendere a calci in culo chi chiedeva l’elemosina”; e come avesse organizzato delle “ronde” a cui si aggregava, girando per la città vecchia circondato da pattuglioni intimidatori. Certo, la carriera da aspirante sceriffo di Garassino è finita in maniera ingloriosa e quasi grottesca, dato che, paradossalmente, è stato rimosso dall’incarico per avere suscitato una dura reazione nel sindacato di polizia, stufo delle sue uscite roboanti sull’assenza o inattività delle forze dell’ordine nel centro storico.
In ogni caso, le “passeggiate” di Garassino e le sue dichiarazioni avevano contribuito a creare un clima in cui potevano prendere piede, e sentirsi quasi giustificate, le iniziative dei “bravi ragazzi”. Il loro operato, in fondo, si inseriva in un sistema di potere che riteneva di poter gestire la città con le maniere forti, calando dall’alto decisioni e scelte importanti, intessendo una rete di clientele e di rapporti “proprietari”, infischiandosene allegramente delle critiche e del malcontento degli abitanti di zone investite da scelte discutibili, come la funivia del Lagaccio e lo Skymetro in Val Bisagno.
L’intervento “energico” in centro storico era un ulteriore aspetto di questa maniera di gestire la città, così come lo era la chiusura sistematica dei centri sociali, con il pretesto di “restituire spazi abusivamente occupati alla popolazione” o di realizzare opere di cui non si è vista neppure l’ombra. “Ripulire” la città vecchia, inoltre, era un modo per soddisfare le richieste della rendita, per riavviare processi di valorizzazione rimasti a metà, o addirittura pesantemente ridimensionati negli anni pandemici, nonostante il proliferare incontrollato dei dehors e il succedersi di ordinanze tese a limitare l’utilizzo degli spazi pubblici (vedi qui).
Un centro antico che doveva fungere da scenario per il rilancio del turismo, sempre agitato nella retorica della giunta precedente come panacea per risolvere gli annosi problemi economici, una manna salvifica di quattrini caduti dal cielo, che avrebbe risollevato le sorti di una città in pauroso declino. Così, se qualcuno esagerava, pazienza! Ci si poteva girare dall’altra parte e dire: “Ah, sono ragazzacci” – salvo poi, sotto sotto, non disapprovare nemmeno troppo le iniziative del gruppetto di picchiatori.
Non che il centro storico sia un posto idilliaco, ma l’idea di risolverne i problemi – come il controllo di alcune zone da parte della malavita organizzata, la povertà e il malessere sempre più evidenti – con le cattive maniere, o sperperando denaro pubblico in centinaia di inutili telecamere, si è mostrato una carta perdente. Non solo tutto è rimasto più o meno come prima, ma alcune situazioni si sono incancrenite, peggiorando ulteriormente. Dietro le poche strade instancabilmente percorse dalle traiettorie fisse delle formiche crocieriste, si aprono spazi intransitabili e in condizioni di abbandono, in cui si muovono figure marginali lasciate alla precaria iniziativa del sottofinanziato “terzo settore”.
Oggi si comincia a fare i conti, dunque, con uno stile di governo della città che ha condotto – come ha scritto Luca Borzani sulle pagine genovesi di “Repubblica” – a un “decadimento etico e civile”, di cui le inchieste in corso sono la testimonianza. Chissà che quanto sta avvenendo a Genova non funga da monito per chi ha pensato che si potesse governare con strumenti più o meno analoghi l’intero Paese. Il “modello Genova”, decomponendosi, non solo emana un pessimo odore, ma lancia anche un avvertimento.