
“Da molti mesi assisto impotente e incredulo alla narrazione perversa della guerra a Gaza, dove chi è stato aggredito intenzionalmente con crudeltà il 7 ottobre, riportando milioni di ebrei agli orrori dell’Olocausto, non ha diritto a solidarietà, anzi è giudicato colpevole di eccesso di difesa”. Queste parole sono di Alberto Bell Paci, figlio di Liliana Segre, di area liberal-centrista ed esponente di “Sinistra per Israele”. Il figlio della senatrice, sopravvissuta ai campi di sterminio, si è già messo in luce per avere stroncato ogni tentativo di apertura di un dialogo tra israeliani e palestinesi, a partire dal documento firmato da duecento ebrei italiani, da lui definito divisivo e scandaloso in quanto presentato il giorno dei funerali dei fratellini Bibas uccisi da Hamas.
L’uomo è tra i tanti firmatari dell’appello “Israele non è solo”, lanciato dal quotidiano renziano “Il Riformista”, più esattamente da un gruppo che si autodefinisce “Punto su Israele”, al cui interno è presente la giornalista Fiamma Nirenstein, sostenitrice dei coloni israeliani al punto che questi le hanno garantito una residenza nella colonia di Gilo. Nel documento – condiviso da personalità di destra, come Francesco Storace e Alessandro Sallusti, e “di sinistra” come Barbara Palombelli e Mirella Serri – non si fa minimamente cenno alle decine di migliaia di vittime civili tra i palestinesi della Striscia: cosa che invece Segre ha fatto in recenti dichiarazioni. Così, anche contro questo orribile giustificazionismo, sabato 7 giugno saranno in corteo nelle strade di Roma, fino alla storica piazza San Giovanni, il Pd, i 5 Stelle e l’Alleanza verdi-sinistra (vedi qui). Con lo scopo di denunciare ciò che i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania stanno subendo dopo la strage di israeliani, a opera di Hamas, del 7 ottobre 2023.
Per la segretaria del Pd non è stato affatto facile essere della partita: continua infatti ad avere, all’interno del partito, personaggi che potrebbero essere definiti “suprematisti bianchi” in salsa israeliana. Il coraggio però non le è mancato, sostenuta anche da un’opinione pubblica decisamente dalla parte di un popolo che, da diciannove mesi, sta subendo un’opera di distruzione tra le più gravi e atroci dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per gli avversari di Schlein (vedi qui), la guerra era una bella occasione per mettere in difficoltà la sua segreteria. Ma proprio su questo punto lei ha mostrato un’apprezzabile fermezza. Così, se qualcuno vuole aggregarsi alla galassia liberal-centrista di Calenda e Renzi che si sono dati appuntamento a Milano il 6 giugno (anch’essi tuttavia contestati dall’Associazione milanese pro-Israele e dalla Brigata ebraica), faccia pure, ma si tratterebbe di una scelta personale – hanno dichiarato al Nazareno.
I sostenitori di un dissenso ormai cronico e noioso sono sempre gli stessi: Lia Quartapelle, Pina Picierno (vedi qui), Graziano Delrio, Piero Fassino, l’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, Paolo Gentiloni e via discorrendo, chiamati “corrente Tel Aviv”, tutti facenti parte della citata e imbarazzante “Sinistra per Israele”. Nata con l’intenzione di valorizzare il meglio della politica e dei movimenti interni allo Stato ebraico, ormai ridotti al lumicino e perseguitati dal governo, si è via via appiattita sulla politica dell’estrema destra israeliana, annoverando ormai, tra i suoi esponenti, amici dei coloni e giustificazionisti dei massacri in atto a Gaza, al punto da perdere per strada diversi tra i fondatori, come per esempio Anna Foa (vedi qui).
Dopo alcuni tentativi di mediazione, i suoi alleati – Giuseppe Conte, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni – hanno invitato Schlein a lasciar perdere, perché il contenuto della piattaforma di lancio dell’iniziativa – quelli, per intenderci, della mozione messa ai voti in parlamento – non va cambiato. Le richieste dei filoisraeliani a prescindere da chi governa a Tel Aviv sono sempre le stesse: il 7 ottobre, gli ostaggi, le sospette simpatie per Hamas, il rischio di antisemitismo, fingendo di ignorare che questi punti sono ben presenti nell’appello. E in ogni caso, quand’anche ci fosse un qualche dissenso del tutto normale in qualsiasi iniziativa politica, dovrebbe prevalere la necessità di denunciare un genocidio o sterminio che dir si voglia, quello che sta colpendo i palestinesi. Ma se un Emanuele Fiano si pone l’interrogativo retorico “che cosa avrebbe dovuto fare Israele?”, invece di uccidere di migliaia di donne, uomini e bambini con i bombardamenti e per fame, si comprende bene come non ci siano i presupposti per una mediazione.
Un altro punto di grave dissenso riguarda i referendum: anche qui la linea decisa dalla segretaria si è trasformata in un suggerimento più che in una decisione presa dal massimo organismo dirigente del partito. Tornando un attimo indietro, dopo avere disatteso, nel marzo scorso, l’indicazione di votare contro il piano di riarmo di Ursula von der Leyen a Strasburgo, ecco ora i cinque quesiti referendari molto mal digeriti non solo dai renziani rimasti nel Pd, ma anche da altri esponenti del partito: perché il Jobs act – primo dispositivo di legge da abrogare – era stato farina del sacco di ex dirigenti del Nazareno che, a distanza di undici anni, non vorrebbero disconoscere la propria creatura. Sia pure con posizioni diverse rispetto a ciascun singolo referendum, a essere fuori linea sono l’ex sindaco di Bergamo oggi europarlamentare, Giorgio Gori, renziano della prima ora, e la solita Pina Picierno. Entrambi si dicono d’accordo sul tema della cittadinanza e sulla responsabilità delle ditte appaltatrici, ma non sugli altri punti legati al Jobs act. Stessa musica con il senatore Filippo Sensi, con l’ex viceministro dell’Economia Enrico Morando, con il costituzionalista ed ex deputato Stefano Ceccanti, e poi con Lorenzo Guerini, Graziano Delrio e Alessandro Alfieri, con la senatrice Simona Malpezzi e le deputate Marianna Madia e Lia Quartapelle; incerto anche il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, e la lista potrebbe continuare. A parte il caso del primo cittadino della città partenopea, è lecito però avere dei dubbi sul fatto che questi nomi possano influenzare più di tanto l’elettorato.
Schlein, del resto, ha dalla sua anche gli ottimi risultati conseguiti alle amministrative, vinte al primo turno a Genova, con Silvia Salis, a Ravenna con Alessandro Barattoni, e ad Assisi con Walter Stoppini. A breve termine, ci saranno altri appuntamenti in cui potremo verificare lo stato di salute del partito. Intanto, aspettiamo la riuscita della manifestazione romana e il risultato dei referendum. Anche se il raggiungimento del quorum è un obiettivo difficile da raggiungere, sarà importante vedere in quanti andranno a votare. Se – come qualcuno ha detto – il numero degli elettori e delle elettrici sarà al livello, o anche superiore, di quello dei sostenitori del governo Meloni, ci sarà da riflettere, e soprattutto per la segretaria sarà un altro punto a suo favore. In autunno, poi, ci saranno le elezioni in Campania, Marche, Toscana, Puglia, Veneto e Valle d’Aosta. Un risultato positivo anche qui rafforzerebbe la segretaria, e a questo punto servirà un congresso per ratificare lo stato delle cose. La segreteria preme per realizzarlo, eventualmente dopo il voto regionale, mentre Schlein è più prudente. Togliere di mezzo un pezzo del partito più attratto dalle sirene di Renzi e Calenda, se non di Forza Italia, sarebbe tuttavia un obiettivo prioritario per permettere al Pd di diventare un partito “normale”, capace anche di dire “qualcosa di sinistra”.