
L’appuntamento dell’8 e 9 giugno è troppo importante per scherzarci sopra o perdere tempo dietro le fake news. Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. I botteghini delle scommesse danno per persa la battaglia, perché – dicono – non si raggiungerà il quorum. Ma noi proviamo ad andare contro corrente, e, siccome siamo intenzionati a non farci sfuggire questa prova di democrazia e siamo convinti di votare “sì” a tutti e cinque i quesiti, invece di riaccendere la polemica contro la destra che sta conducendo una campagna di boicottaggio politico (grave il caso di La Russa, scandalose molte altre dichiarazioni di ministri e dirigenti di partito), ci sembra più utile tentare di rispondere alla domanda che tutti si fanno e che confonde talvolta anche chi vorrebbe votare: che cosa succederebbe se vincessero i “sì”?
Cominciamo dalla coda, cioè dall’ultimo referendum, quello sulla cittadinanza. Il quinto quesito chiede l’abrogazione parziale della legge del 5 febbraio 1992 (n. 91), “recante nuove norme sulla cittadinanza”. In sostanza, se dovessero vincere i “sì”, dal 10 giugno prossimo si ridurrebbe il periodo di residenza legale continuativa necessario per richiedere la cittadinanza: da dieci a cinque anni. Una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai figli minorenni. Si tratta di un riconoscimento giuridico sano e giusto per tantissimi cittadini di origine straniera che in Italia sono nati, ci abitano, ci lavorano, e contribuiscono alla crescita economica e sociale versando i contributi previdenziali nelle casse dell’Inps (per pensioni di cui poi potranno magari godere solo in parte).
Il quesito del primo referendum è molto tecnico, ma di straordinaria importanza. Si chiede l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”. Traducendo dal giuridichese, si chiede l’abrogazione del Jobs Act che ha limitato l’articolo 18 e ha introdotto una frattura, una vera e propria faglia, nel mercato del lavoro italiano, che dal 2015 ha un prima e un dopo. L’obiettivo del referendum è quindi quello di eliminare le disparità di trattamento tra i lavoratori assunti anteriormente e posteriormente al 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo (non quelli per “giusta causa” che ovviamente restano validi). Oggi, chi è stato assunto prima di quella data e viene licenziato ingiustamente può essere reintegrato nel proprio posto di lavoro, mentre chi è stato assunto dopo il 2015 ha diritto solo a un indennizzo (stiamo parlando di oltre tre milioni e cinquecentomila persone che continueranno ad aumentare progressivamente nel mercato del lavoro, quello “più bello dai tempi di Garibaldi”). L’abrogazione del decreto legislativo n. 23/2015 garantirebbe a tutti lo stesso livello di tutela previsto dalla legge Fornero.
Ma allora ha ragione Renzi? L’autore del Jobs Act non può che difendere la sua creatura, e così stanno facendo i suoi nelle dichiarazioni pubbliche e sui social. Se vincesse il “sì” – dice Renzi – non è che sui licenziamenti si tornerebbe all’articolo 18 dello Statuto del 1970, cioè al reintegro nel posto di lavoro, ma si tornerebbe alla legge Monti-Fornero, che prevede sempre un indennizzo, ma con un tetto più basso, non le trentasei mensilità di adesso, ma ventiquattro mesi. L’affermazione è formalmente corretta, ma è anche mistificatoria e fuorviante, perché l’articolo 18 prevede come regola tendenziale la reintegrazione, mentre il decreto n. 23 si limita a monetizzare con il risarcimento la maggior parte dei casi di licenziamento illegittimo.
Si cerca di alzare del fumo per confondere l’elettorato e ottenere la sconfitta dei referendum. C’è chi sostiene, per esempio, che il referendum sarebbe ormai inutile alla luce delle modifiche contenute nel cosiddetto “decreto dignità”, e soprattutto delle sentenze nel frattempo emanate dalla Consulta. Ma questi riferimenti, oltre a confermare la debolezza strutturale del Jobs Act dal punto di vista giuridico, avvalorano la tesi contraria ai renziani, perché, appunto come spiegano i giuslavoristi, non è vero che le due tutele (quella dell’art. 18 e quella del Jobs Act, anche con le modifiche apportate dalla Consulta) siano equiparabili, in quanto comunque è esclusa la reintegrazione per i nuovi assunti dopo il 7 marzo 2015 in svariati casi e, in particolare, nei licenziamenti economici, tranne rare eccezioni, e cioè quando manchi del tutto la giustificazione.
Il quesito del secondo referendum suona: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante ‘Norme sui licenziamenti individuali’” (…). Al di là dei tecnicismi del linguaggio giuridico, la domanda è semplice: in caso di vittoria del “sì”, i lavoratori delle piccole imprese ingiustamente licenziati avrebbero diritto a un risarcimento minimo di 2,5 mensilità (aumentabile in base alla valutazione del giudice). Le ragioni alla base della proposta di eliminazione del massimo di sei mensilità dipendono certamente dalla esiguità di un simile risarcimento, ma anche dalla consapevolezza che un’impresa che occupa pochi dipendenti non necessariamente è anche un’impresa povera. “Prevedere un tetto massimo così basso – spiega Roberta Covelli su “Fanpage” – rischia di permettere a imprese piccole, ma con volumi d’affari rilevanti di licenziare i dipendenti sgraditi con un impatto trascurabile sulle proprie casse e quindi con una sanzione che, oltre a non riparare il danno subito dalla persona ingiustamente licenziata, non è nemmeno idonea a dissuadere il datore di lavoro dal procedere in questo modo”.
In generale, la vittoria dei “sì” determinerebbe la possibilità di stabilire le stesse tutele per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla data di assunzione, il reintegro nei casi di licenziamento disciplinare illegittimo, una maggiore tutela nei licenziamenti collettivi e un aumento dell’indennizzo minimo nei casi in cui la reintegra non è prevista. Attualmente, nelle piccole imprese (meno di sedici dipendenti), il risarcimento massimo per un licenziamento illegittimo è limitato a sei mensilità. Con la vittoria dei “sì” sarebbero prima di tutto evitati risarcimenti inadeguati per chi ha subito un danno economico e personale grave, facendo riferimento a una valutazione caso per caso, tenendo anche conto delle condizioni familiari e della situazione del datore di lavoro (quindi non c’è nessuna volontà punitiva nei confronti degli imprenditori).
Il terzo quesito è sull’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro”. Si chiede la revisione della normativa in tema di contratti a termine, e nel quesito si fanno altri riferimenti tecnici (per chi volesse approfondire è facile trovare i quesiti integrali sui siti che conducono la battaglia referendaria, quello della Cgil nazionale, per esempio). In ogni caso, la traduzione del lungo quesito è semplice: si chiede l’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato. In Italia, ci sono oggi milioni di persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato. Questi contratti di lavoro a termine possono oggi essere instaurati fino a dodici mesi, senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo.
La vittoria del “sì” permetterebbe di ripristinare l’obbligo di motivazioni causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato, e renderebbe inutili anche i progetti di ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro messi in campo dal governo Meloni. Il “sì” cancellerebbe, infatti, sia le parti dell’articolo 19 del decreto legislativo 81 del 2015, che prevedono ipotesi di “acausalità”, come quelle relative ai primi dodici mesi di contratto a termine, sia quelle che permettono alle parti di individuare ulteriori causali in ambito aziendale. Con la vittoria dei “sì”, si potranno continuare a stipulare contratti a tempo determinato, ma con l’obbligo di motivare, fin dall’inizio, il ricorso a questo tipo di contratto, tramite causali precise, quali la sostituzione di lavoratori o altre ragioni individuate dalla contrattazione collettiva.
Il quarto referendum chiede l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” (…). Questo quesito riguarda il sistema degli appalti: in particolare, si chiede l’abrogazione di una norma che limita la responsabilità del committente per le obbligazioni del proprio appaltatore. Se dovesse vincere il “sì”, anche il committente, insieme all’appaltatore, potrebbe rispondere dei danni non coperti dall’Inail. Ovviamente, questo non significherebbe attribuire automaticamente delle responsabilità al committente, ma lo obbligherebbe alla vigilanza. Per i lavoratori ci sarebbe una maggiore tutela nei casi di infortuni o malattie professionali non indennizzati.
Precisazione finale. Ci scusiamo per i tanti riferimenti tecnici di questo articolo, ma abbiamo voluto focalizzarci sui contenuti precisi dei referendum perché rimaniamo tra quei romantici che credono ancora nell’importanza dell’informazione, un bene in balia dei polveroni e del rumore di fondo. Sull’importanza politica dell’appuntamento dell’8 e 9 giugno non ci sarebbe bisogno di aggiungere parole. Ma comunque torneremo a farlo.