Triste a volte constatare che i sondaggi non mentono: il vento di destra che soffia sull’Europa ha travolto l’Austria, senza incontrare ostacoli. I risultati sono noti da qualche giorno: al primo posto il Partito della libertà austriaco (Fpö) guidato da Herbert Kickl. Il partito, che si situa all’estrema destra, per la prima volta nella sua storia ha centrato l’obiettivo di vincere una tornata elettorale nazionale, ottenendo il suo miglior risultato, con quasi il 29%. Si è completamente ripreso dal crollo del 2019, in cui conseguì il 16,2% a causa di uno scandalo che mostrò al mondo intero la grottesca mediocrità del suo personale politico. Lo “Ibizagate” vide coinvolti quelli che, a quel tempo, erano i due massimi dirigenti del partito in una misera trattativa con la sedicente moglie di un oligarca russo per ricevere denaro in cambio di favori. Ma Kickl ha risollevato il partito, portandolo a un livello che non aveva mai conosciuto in precedenza.
Al secondo posto il conservatore Partito popolare, con il 26,3%, e, nettamente staccati, i socialdemocratici con il 21%, che hanno fatto registrare il peggior risultato della loro storia. Anche i verdi, che sono insieme ai popolari nell’attuale governo, hanno subito un forte calo di consensi, con solo l’8%. I liberali sono da annoverare tra gli altri vincitori della tornata, con oltre il 9%. Analogamente a quanto avvenuto nelle recenti elezioni in Brandeburgo (vedi qui), l’affluenza alle urne è stata molto elevata: ha votato quasi l’80% degli aventi diritto.
La svolta di estrema destra dell’Austria è un altro segnale preoccupante per l’Europa, segnala che la recente ondata non accenna a placarsi. I leader del Partito della libertà considerano una figura come il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, che ha sistematicamente smantellato le libertà democratiche nel suo Paese, come un modello e sembrano intenzionati a seguirne l’esempio. Se l’ Fpö riuscisse a formare una coalizione di governo – cosa che appare tuttavia ancora improbabile – l’Unione europea si troverebbe di fronte a un blocco populista euroscettico, comprendente Austria, Ungheria e Slovacchia, e forse anche la Repubblica ceca, che potrebbe entrare nel club dopo le elezioni che si terranno l’anno prossimo.
L’Fpö, fondato negli anni Cinquanta da ex membri delle SS e altri veterani nazisti, si è presentato in queste elezioni con un classico programma anti-stranieri, promettendo di erigere una “fortezza Austria” per tenere fuori i migranti. Anche qui sono risuonati gli slogan inneggianti alla “remigrazione”, come già nei comizi della AfD in Germania. Tra gli altri dettagli gustosi, durante la campagna elettorale, Kickl ha promesso agli elettori che se avesse vinto, avrebbe ricoperto il ruolo di Volkskanzler, ovvero di “cancelliere del popolo”, un termine usato da Adolf Hitler.
Sebbene il partito abbia minimizzato, negli ultimi tempi, il suo passato nazista, e cerchi di presentarsi come un’alternativa anti-establishment ai partiti centristi mainstream, nella sua propaganda utilizza regolarmente tematiche e luoghi comuni fascisti e antisemiti, tanto per ringalluzzire la sua base. Una settimana fa, al funerale di un politico di lunga data del partito, i partecipanti hanno salutato il loro camerata cantando un inno delle SS. Tra il pubblico, c’erano diversi leader, alcuni passati e altri presenti. Sono gesti che possono ritenersi folcloristici (come pare ritenere Matteo Salvini, che ha festeggiato la vittoria degli “alleati”), ma in ogni caso preoccupano, e renderanno difficile per l’Fpö costruire una coalizione. La Costituzione austriaca attribuisce l’ultima parola sulle nomine dei ministri e del cancelliere al presidente: Alexander van der Bellen, ex leader dei verdi, presidente dal 2017, non ha fatto mistero del suo disprezzo per Kickl, ed è improbabile che lo nomini cancelliere. Tuttavia, sarebbe difficile per il presidente ignorare il risultato e la dimostrazione di forza dell’Fpö. Il partito, se non viene isolato, ha qualche possibilità di costruire un’alleanza con il centrodestra dei popolari, che hanno però escluso recisamente di potere lavorare con Kickl; il Partito della libertà dovrebbe quindi fare il nome di un candidato alternativo per la cancelleria. Un’altra opzione per i popolari potrebbe essere quella di costruire una coalizione a tre, con i socialdemocratici e i liberali, anche se una tale combinazione potrebbe rivelarsi instabile, dato il divario ideologico tra le tre componenti. E una simile formula correrebbe anche il rischio di risultare controproducente, rafforzando l’immagine anti-establishment dell’Fpö, e procurandogli un’ulteriore crescita di simpatie e consensi.
Certo i tempi sono cambiati: quando nel 2000 il Partito della libertà entrò per la prima volta a far parte di una coalizione governativa, all’epoca solo come partner minore, la protesta in Europa fu gigantesca. Da Bruxelles vennero imposte sanzioni diplomatiche all’Austria, trattata alla stregua di un Paese-paria. Quasi un quarto di secolo dopo, la reazione dell’Unione alla vittoria elettorale del partito, rimasto sulle sue posizioni di estrema destra, è poco più che un’alzata di spalle. Ci si sta facendo l’abitudine, dopo l’affermazione di queste forze un po’ dovunque e con la presenza al governo di uomini (e di una donna) che provengono da partiti populisti e reazionari. Che si tratti di Svezia e Finlandia al Nord, Polonia e Ungheria a Est, o Italia al Sud, i partiti populisti ed estremisti di destra si stanno rafforzando da anni in tutta Europa. È una tendenza operante almeno dalle elezioni europee del 2014 e del 2019, e che continua crescere.
Perché continuano a guadagnare voti e influenza? Quali richieste avanzano realmente questi partiti? Quali sono le ragioni del loro successo? Domande che in pochi hanno voglia di porsi, e che vengono spesso liquidate con un retorico accenno al ritorno dei “demoni dell’abisso” di cui parlava Thomas Mann. Per parte nostra, ci limitiamo a notare che l’abbassamento del tenore di vita nei Paesi europei, e la crisi dei ceti medi, unitamente alla precarizzazione del lavoro, hanno introdotto elementi inediti di confusione e disorientamento, spesso culminati nella individuazione dei migranti come responsabili della crisi e delle mutate condizioni di vita. Non a caso, ciò che accomuna questi partiti è la xenofobia rabbiosa e la proposta di costruzione di un’impenetrabile “fortezza Europa”. Sotto questo profilo, il fallimento della politica migratoria europea, fin dall’inizio mal concertata e soggetta a continui strappi e a differenze rilevanti sul piano interno dei diversi Paesi membri, è evidente. Ma c’è un altro convitato di pietra in Europa, cui finora non è stata prestata sufficiente attenzione, ed è la questione della guerra. Il pacifismo spesso è stato lasciato alle destre, commettendo un errore storico di valutazione che rischia di essere fatale, e di fare pagare un prezzo altissimo all’Unione, stretta tra le imposizioni della Nato e un malcontento che sale e si consolida, assumendo forme sempre più sgradevoli.