Speravano di risolverla entro quest’anno. E invece la fumata bianca, anzi nera, potrebbe arrivare nella prossima primavera. O forse no. Ci ha provato il governo Meloni a infiocchettare il “pacco”, costruendo una gara di vendita-acquisto con una sua road map disegnata con tante varianti nel tentativo di poter raggiungere comunque l’obiettivo.
Lo scopo è quello di vendere i “gioielli” della siderurgia pubblica italiana – l’ex Italsider, ex Ilva oggi Acciaierie d’Italia – dopo una prima fallimentare cessione a un gruppo franco-indiano (ArcelorMittal). Di vendere possibilmente in blocco tutti i “gioielli” del gruppo, sperando di disfarsene quanto prima.
Ma il futuro dell’acciaio italiano è molto incerto. Domenica 29 settembre, all’inaugurazione della Fiera del Levante di Bari, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si è solo augurato “che entro marzo si possano assegnare i nostri asset a chi crede nella siderurgia italiana”.
Insomma, buio fitto sulla stessa esistenza di un gruppo siderurgico nazionale e incertezza sui tempi della vendita della più grande acciaieria a ciclo integrato d’Europa, l’ex Ilva di Taranto. È vero che il commissario straordinario dell’ex Ilva, Giovanni Fiori, ha sostenuto che “l’obiettivo dell’operazione di cessione è trovare un unico acquirente a cui vendere il gruppo nella sua totalità”; ma l’ipotesi che invece si sta facendo strada, che si bisbiglia nei corridoi dei tanti incontri tra le parti, i sindacati, il governo e l’azienda che è commissariata, è che si finirà per separare il grano dal loglio.
Insomma si cederanno gli stabilimenti della Liguria, della Lombardia e del Veneto a singoli imprenditori o a cordate d’imprese soprattutto italiane. Taranto invece dovrebbe finire a un gruppo straniero.
Due settimane fa, sono state aperte le buste contenenti le “manifestazioni di interesse” per l’acquisto del gruppo siderurgico. Sono state quindici le aziende che hanno espresso la loro disponibilità. Ma solo tre quelle che hanno annunciato la volontà di comprare tutto il blocco: la Vulcan Green Steel (del gruppo indiano Jindal); Stelco (il gruppo americano appena assorbito dai canadesi di Cleveland Cliffs). E infine il gruppo dell’Azerbaijan, Baku Steel Company.
Sono due i pericoli denunciati dai sindacati e dall’opposizione al governo. Ubaldo Pagano, parlamentare del Pd: “Il bando di gara del governo è assolutamente atipico e quindi non presta certezze fino ad aggiudicazione definitiva. La sensazione è quella che si è aperta la stagione dei saldi. Si svenderanno le aziende del gruppo del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, mentre per Taranto il rischio è una lenta e inesorabile agonia, anche perché dal 2026 saranno introdotte salatissime tasse ambientali per il consumo di carbone”.
L’esponente del Pd ricorda che il progetto di “decarbonizzazione” di Taranto prevedeva un costo di quattro miliardi di euro. Una prima rata di un miliardo era stata prima autorizzata ma poi dirottata altrove. Francesco Brigati, Fiom-Cgil precisa: “Noi crediamo che il bando di vendita sarebbe dovuto partire all’indomani della realizzazione del piano di ripartenza, per offrire ai compratori un impianto funzionale. E invece il governo ha scelto di procedere alla vendita contemporaneamente al piano di ripartenza. Noi poi non condividiamo la prospettiva di cedere a una multinazionale straniera gli impianti. Proprio perché si dovrà governare la transizione ecologica che coinvolgerà anche Taranto (da alimentazione degli altiforni a carbone ai forni elettrici), c’è bisogno di una garanzia pubblica”.
La ripartenza di Taranto è una speranza. Oggi è acceso solo uno dei quattro altiforni. Il 16 ottobre, il ministro Urso dovrebbe andare a Taranto per la riapertura di un secondo altoforno. Se verranno rispettate le previsioni, il 2024 dovrebbe chiudersi con una produzione di circa due milioni di tonnellate di acciaio (la capacità produttiva di Taranto è di sei milioni di tonnellate). Ciò non impedirà la nuova cassa integrazione per 4.050 lavoratori del gruppo, come stabilito da un accordo con i sindacati. A Taranto quasi il 60% dei dipendenti rimarrà a casa.
E l’“ambiente svenduto”? Dodici anni fa una inchiesta della procura di Taranto portò al sequestro e poi al commissariamento dell’acciaieria per disastro ambientale. Ci furono ventisei condanne pesantissime in primo grado per 270 anni di carcere contro i proprietari, i manager e anche gli amministratori locali. Agli inizi del settembre scorso la Corte d’Assise d’appello di Taranto ha annullato la sentenza di primo grado trasferendo il processo a Potenza.
Nel corso del dibattimento, i legali degli imputati sollevarono più volte il problema della competenza territoriale del processo. In un’udienza del processo, nell’ottobre del 2016, l’avvocato dei proprietari dell’impianto siderurgico, la famiglia Riva, sostenne che il processo andava trasferito perché i magistrati tarantini non avevano “la serenità necessaria a giudicare in quanto anch’essi parte offesa dell’inquinamento”. “Molti giudici e pubblici ministeri – disse il legale – vivono nel cuore della nube tossica”.
I giudici della Corte d’appello di Taranto hanno invece motivato il trasferimento del processo a Potenza perché tra i “ricorrenti” della parte civile vi erano anche due giudici onorari, che lamentavano danni alle proprietà di terreni e immobili provocati dall’inquinamento dell’acciaieria.
È vero che i due erano usciti dai ranghi della magistratura onoraria molto prima dell’inizio del processo, ma va considerato – hanno sostenuto i giudici dell’Appello nelle motivazioni – che al momento della consumazione del reato, i due operavano uno come giudice di pace, l’altro come consulente nella sezione agraria del tribunale di Taranto.
Ora si riparte da zero. Intanto i pm di Potenza potrebbero rivolgersi alla Cassazione, sollevando un conflitto di competenza. Il rischio vero è che tutto finisca senza colpevoli, per intervenuta prescrizione dei reati.