Il nuovo parlamento europeo, uscito dalle elezioni di giugno, non ha più una maggioranza aritmetica sicura delle forze progressiste e ambientaliste a favore del Green Deal, il Patto verde europeo che, nel 2019, era stato il pilastro fondamentale del programma di legislatura dell’attuale Commissione di Ursula von der Leyen. Esiste ancora una maggioranza politica per il Green Deal, ma dipende fortemente dalla volontà del Ppe di farne parte. In altre parole, nei prossimi cinque anni saranno i popolari a decidere quali decisioni, atti legislativi ed emendamenti passeranno al voto del parlamento, e quali no. Durante la prima sessione, a luglio, e nelle settimane successive, il Ppe ha confermato il cosiddetto “cordone sanitario”, che ha escluso dalle cariche interne dell’Assemblea di Strasburgo – e dovrebbe escludere dai futuri negoziati legislativi – i due gruppi di estrema destra, quello dei sovranisti (Esn) e quello dei “patrioti”; ma il cordone non si applica all’altro gruppo di destra, quello dei conservatori (Ecr), di cui fa parte Fratelli d’Italia. In caso di controversia con le forze progressiste, il Ppe non dovrà far altro che accordarsi con i conservatori, sapendo che poi saranno questi a fare appello, al momento del voto, ai sovranisti e ai patrioti, per sconfiggere il centrosinistra e gli ambientalisti.
Le prove generali, su un tema che non riguardava il Green Deal, sono già state fatte nella seconda sessione plenaria di Strasburgo, il 19 settembre scorso, quando è passata una risoluzione sul Venezuela con 309 voti a favore, 201 contrari e 12 astenuti, in cui il Ppe e i tre gruppi di destra hanno votato compatti, contro socialisti, verdi e sinistra, mentre i liberali di Renew si sono astenuti.
Già nell’ultimo anno della scorsa legislatura, la marcia indietro del Ppe sull’applicazione del Green Deal al settore agricolo e alla protezione della natura e della biodiversità aveva rimesso in discussione diversi regolamenti e direttive nella fase finale dell’iter decisionale. Ma, a parte un’unica eccezione, quella del regolamento sulla riduzione dei pesticidi, bocciato in aula (grazie alla defezione di diversi eurodeputati liberali e anche socialisti), gli altri atti legislativi presi di mira dal Ppe e dalle destre sono comunque passati al voto finale, anche se spesso pesantemente annacquati (vedi qui). È successo, per esempio, con i nuovi limiti (lo standard Euro 7) per le emissioni dagli autoveicoli dei gas inquinanti diversi dallo CO2, con le nuove norme sulle emissioni industriali (che si applicheranno anche agli allevamenti intensivi, ma non a quelli bovini), con la direttiva “Due Diligence” (che obbliga le grandi imprese a tenere sotto controllo il rispetto dei diritti sociali e ambientali nelle proprie catene del valore), con il regolamento sugli imballaggi e rifiuti da imballaggi, e soprattutto con il regolamento sul “ripristino della natura” (vedi qui). In quest’ultimo caso, il Ppe, non contento dei molti emendamenti che avevano indebolito il testo, avrebbe voluto una bocciatura, come per i pesticidi; ma la maggioranza progressista che allora ancora esisteva a Strasburgo ha resistito, e il regolamento alla fine è stato approvato dalla plenaria. Con l’attuale parlamento, questo (cioè un regolamento approvato con la maggior parte dei popolari contrari) non sarebbe più possibile. Basta guardare i numeri: Ppe (178), Ecr (78), patrioti (84) e sovranisti (25) hanno un totale di 365 seggi; mentre, sul fronte progressista e ambientalista, socialisti e democratici (136), liberali (77), verdi (53) e sinistra (46) hanno solo 312 seggi.
La situazione è ancora più preoccupante se si guarda agli equilibri politici all’interno della Commissione: con quindici commissari del Ppe, più due di destra (l’italiano Raffaele Fitto e l’ungherese Olivér Varelyi), i popolari hanno la maggioranza assoluta in caso di voto del Collegio. Non passerà più niente che il Ppe non voglia. È vero che ormai una gran parte della legislazione prevista dal Patto verde è stata adottata, soprattutto per quanto riguarda l’energia e il clima. Ed è vero anche che la stessa von der Leyen, quando si è presentata a luglio per il voto sul suo secondo mandato, ha assicurato che non ci sarà “nessuna marcia indietro sul Green Deal”. Ci saranno, a quanto ha annunciato, almeno tre nuove iniziative importanti per il Patto verde: il nuovo “Clean Industry Act” (sul cui contenuto non si sa ancora niente), la proposta del nuovo obiettivo di riduzione al 90% delle emissioni nell’Unione per il 2040, e una iniziativa sulla resilienza delle risorse idriche (“European Water Resilience Strategy”).
Più vaga, invece, è la prospettiva della revisione (“semplificazione” secondo la lettera di missione alla commissaria designata all’Ambiente, la svedese Jessika Roswall) del regolamento Reach sulle sostanze chimiche, e in particolare dell’attesa regolamentazione degli Pfas (composti chimici inquinanti perenni). Nella lettera di missione a Roswall, von der Leyen chiede di “fare chiarezza” sugli Pfas (qualunque cosa questo significhi), non di proporne il divieto d’uso, almeno nei casi in cui è più evidente la loro nocività alla salute e all’ambiente.
La presidente riconfermata della Commissione ha puntualizzato che, per portare avanti il Green Deal, più che varare nuove iniziative legislative occorrerà ora soprattutto attuare quelle già adottate. E sebbene questo sia un compito che spetta agli Stati membri, la Commissione ha comunque un ruolo essenziale, sia riguardo a diversi atti esecutivi sia per il controllo della corretta attuazione, anche ricorrendo alle procedure d’infrazione, quando necessario.
Ma sono evidenti le pressioni crescenti da parte dei sempre più numerosi governi di centrodestra nell’Unione e delle forze politiche conservatrici per ritardare, rinviare o rimettere in questione, l’attuazione di regolamenti e direttive già entrati o che stanno entrando in vigore. A cominciare dal regolamento sulle emissioni dei veicoli, e dall’obiettivo zero emissioni nette da raggiungere entro il 2035, come si è visto in particolare, a fine settembre, con l’offensiva del ministro italiano Adolfo Urso. Intanto, è quasi sicuro ormai che verrà ritardata, almeno di sei mesi, l’attuazione del regolamento contro la deforestazione.
Tuttavia, i regolamenti del Green Deal che rischiano, se non la marcia indietro esclusa da von der Leyen, almeno problemi sostanziali per la piena applicazione, e nei tempi previsti, sono molti di più. La Fondazione Heinrich Böll, affiliata ai verdi, ha presentato il 26 settembre a Bruxelles un rapporto, intitolato “European Green Deal Risk Radar”, che elenca tredici dossier legislativi a rischio, tra i più importanti fra tutti quelli (circa cento) che sono stati presentati dalla Commissione durante il primo mandato di von der Leyen. Il rapporto indica il livello di rischio (basso, con buone prospettive di conseguire gli obiettivi; medio; alto, con possibile marcia indietro e non conseguimento degli obiettivi) per ognuno dei tredici dossier. Il regolamento sulle emissioni di CO2 dei veicoli e quello contro le deforestazione sono indicati come i più a rischio di ritardo di attuazione, insieme alla nuova direttiva sulla tassazione dell’energia (che non è ancora stata adottata) e ai due regolamenti sul ripristino della natura (adottato) e sulla riduzione dei pesticidi (che dovrà essere ripresentato dopo la bocciatura del parlamento europeo).
Oltre ai rischi di ritardo o di mancata attuazione, il rapporto individua anche altri tre rischi possibili: problemi a livello “distributivo” (con un impatto sproporzionato della transizione verde su famiglie e imprese più vulnerabili), o dovuti a insufficienti risorse finanziarie; e poi la possibilità che si apra la porta alla continuazione dell’uso dei carburanti fossili, o all’uso del nucleare. Ad alto rischio di apertura all’uso perdurante delle fonti fossili, sono considerati il regolamento sulle emissioni di CO2 delle auto e la riforma del mercato del gas. Un alto rischio finanziario-distributivo è indicato inoltre per il regolamento contro la deforestazione. Solo il nuovo sistema di scambio dei permessi di emissione (Ets) è considerato sicuro per ciascuno dei quattro tipi di rischio.
Il regolamento “Effort Sharing” (condivisione tra gli Stati membri dello sforzo di riduzione delle emissioni), che dovrebbe entrare in vigore a inizio 2025, è considerato a rischio moderato di ritardo. La riforma del mercato dell’elettricità presenta un rischio medio di apertura ai carburanti fossili e al nucleare. Il nuovo sistema Ets 2 (permessi di emissione per il riscaldamento e i trasporti su strada) comporta un rischio medio a livello distributivo, indica ancora il rapporto. In effetti, si tratta di una delle nuove normative che potrebbero pesare di più su famiglie e imprese, che dovranno cominciare a pagare i permessi di emissione dal 2027. Dal 2026, comunque, comincerà a essere usato il Fondo sociale climatico, proprio per ridurre questo impatto. Eventuali problemi nell’attuazione potrebbero poi far perdurare l’uso di fonti fossili.
Infine, un rischio medio di ritardo è individuato per quanto riguarda il regolamento sulla governance, che prevede la presentazione dei Piani nazionali su energia e clima (Pnec) da parte degli Stati membri, con il percorso verso l’obiettivo di riduzione delle emissioni al 55% entro il 2030. I Pnec dovevano essere sottoposti alla Commissione entro settembre: dieci Paesi (tra cui l’Italia) lo hanno già fatto, altri dieci dovrebbero farlo in ritardo, nel giro di qualche settimana, mentre cinque Stati membri (Austria, Belgio, Repubblica ceca, Croazia e Polonia) non hanno neanche indicato una data per la presentazione. La Commissione dovrà valutare se i Pnec presentano delle lacune, e indicare eventuali correzioni necessarie. Dei nuovi piani aggiornati dovranno essere presentati nel 2028.