(Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2024)
Negli ultimi anni la creatura freudiana ha subito vari processi di ibridazione e, in tal senso, la psicoanalisi è stata sempre meno utilizzata per la critica sociale e politica, preferendo trattarla come un’ancella delle neuroscienze o della psicologia evoluzionista. Solo recentemente alcuni storici e psicoanalisti indipendenti, come il gruppo vicino alla rivista “Psicoterapia e scienze umane”, hanno tentato di mettere in guardia nei confronti di questo snaturamento. Con il crescente conflitto fra la destra populista e la sinistra radicale (quella dei movimenti ecologisti, femministi, Lgbtq+, Woke, Black Lives Matter), la psicoanalisi, in versione freudiana con influenze lacaniane, sembra ritornata di moda, a livello internazionale, come uno strumento di analisi politica.
Robert Samuels è uno degli autori che hanno scritto interessanti volumi su questi temi: The Psychopathology of Political Ideologies (Routledge, 2022) e Psychoanalysis and the Future of Global Politics (Palgrave Macmillan, 2023). Nei suoi libri insiste su alcuni meccanismi di difesa mostrati da politici e intellettuali, che influenzano il giudizio delle masse e, più generalmente, la cultura contemporanea. Samuels è abbastanza amaro nel riconoscere certi atteggiamenti militanti della sinistra che depotenziano proprio la comprensione dei meccanismi con cui la destra populista attrae ed educa le masse. Una concezione piena di pregiudizi, fondata proprio sulla eliminazione della psicoanalisi dal piano dell’analisi politica. L’analisi psicoanalitica delle difese psicologiche presenti nei vari atteggiamenti ideologici è invece il nucleo della proposta di Samuels.
In primo luogo, egli evidenzia una sorta di narcisismo dei moderati per cui essi usano l’evoluzionismo, per esempio, per legittimare “scientificamente” comportamenti politici che tendono alla conservazione dello status quo; oppure dei giornalisti che, se da un canto si presentano come dei tranquilli moderati, tendono dall’altro a narrare gli eventi in forma polarizzata per accrescere l’audience dei programmi televisivi.
Sotto la sindrome narcisista dei centristi moderati, Samuels inserisce l’agire di economisti come Joseph Stiglitz che, pur biasimando gli errori della Banca mondiale, hanno operato o operano ad alti livelli in quelle stesse istituzioni da loro criticate secondo modalità che invece, scotomizzando il sistema di privilegi di cui sono essi stessi il prodotto, tendono a preservare. Per Samuels la meritocrazia, promossa soprattutto dai moderati, è presentata come un dispositivo magico in grado di eliminare automaticamente le profonde disuguaglianze che condizionano la realtà sociale contemporanea, senza badare ai meccanismi di riproduzione delle diseguaglianze favorite piuttosto dalla stessa meritocrazia. Si tratterebbe di un insieme di fenomenologie legate al narcisismo dei politici centristi e moderati, fondato sul bisogno di essere riconosciuti come competenti e con l’idea di volere essere giusti ed efficienti nel risolvere i grandi problemi della società, senza però riuscirci, operando anzi in maniera poco trasparente affinché il sistema sia mantenuto.
Le stesse categorie psicopatologiche applicate da Samuels a personaggi del mondo statunitense potrebbero facilmente applicarsi ai politici europei, italiani in particolare, che si presentano come degli efficienti individui moderati che mirerebbero a “risolvere i problemi” contro gli arruffoni della sinistra o i parvenus populisti. Anzi, probabilmente in Italia c’è una sorta di tradizione in cui i “tecnici” prestati alla politica incarnano esattamente queste dinamiche narcisiste, in cui larga parte della borghesia si è identificata.
In questa visione, anche il trumpismo – a partire da una oggettiva posizione di potere – si pone paradossalmente come contraltare di un presunto potere delle élite democratiche e di sinistra (i media democratici, i nuovi movimenti sociali, la sinistra socialista e liberale), operando così un ribaltamento della realtà capace di riunire fra loro libertari di destra, conservatori, e una massa indefinita di classe media impoverita. Un raggruppamento di soggetti politici eterogenei uniti dall’obiettivo di opporsi a chi, promuovendo la giustizia sociale, perseguirebbe segreti fini autoritari.
Per Samuels il populismo della destra radicale si fonda, quindi, sull’odio e sul diniego sottostante a un complottismo verso le presunte élite di sinistra, che toglierebbero potere alla classe dell’americano bianco, producendo così continue confusioni fra centristi, liberals e sinistra, considerati in blocco come identici nemici da combattere con l’uso di meccanismi difensivi basati sulla polarizzazione (cioè sulla facile divisione fra bianco o nero, bene o male, giusto o sbagliato). Un meccanismo della polarizzazione che Samuels descrive citando, tra l’altro, ricerche sulla mentalità autoritaria e fondamentalista condotte da chi scrive in collaborazione con alcuni colleghi della Sapienza.
Qui si affronta uno dei dilemmi della politica contemporanea: come mai al populismo di destra partecipano, uno accanto all’altro, poveri e ricchi, persone di potere e popolo senza alcun potere, come se gli obiettivi del bianco benestante americano fossero i medesimi del bianco americano appartenente alla classe operaia? Secondo gli psicologi della politica cognitivisti (Jost, Napier) ciò avverrebbe perché la destra svolgerebbe la funzione di una sorta di ideologia palliativa, che individua irrealisticamente delle soluzioni alla crisi esistenziale dei ceti che si sentono depotenziati, divenendo un’ideologia che in sostanza giustifica e cristallizza le gerarchie e le crisi della contemporaneità.
Samuels utilizza, invece, una lente psicoanalitica che parte ugualmente dai conflitti, ma non solo cognitivi, presenti nelle varie anime della destra per evidenziare meccanismi di difesa potenti, simbolici e irrazionali, che usano la vittimizzazione, la negazione, la proiezione e la generalizzazione, rivelando la psicopatologia inconscia di chi sostiene queste forme della politica. Riguardo ai populisti di destra Samuels parla di una sindrome politica di tipo borderline, citando, per esempio, l’impressionante ascesa di politologi populisti, come Glenn Beck, che sfornano a ripetizione best-seller in cui si cerca di dimostrare tesi improbabili come quella secondo cui Biden rappresenterebbe una sorta di fascista del Ventunesimo secolo. Si tratta di un deliro contemporaneo, che tuttavia interessa milioni di persone e che, secondo Samuels, si fonda in ultima analisi su meccanismi difensivi di tipo psicologico specificatamente politici come l’identificazione proiettiva politica. Il ricco bianco americano non dice di volere pagare meno tasse, di volere divenire ancora più ricco di quanto già sia o di avere minori controlli dello Stato per perseguire i suoi fini egoistici; piuttosto costruisce un universo delirante in cui l’avversario “democratico”, che vorrebbe riformare o modificare il capitalismo, diventa il nuovo fascista che gli limita le libertà. Tali narrazioni, che ribaltano la realtà, avrebbero un effetto potente sia sui ricchi sia sui poveri.
Le fascinazioni della destra conservatrice e anarco-capitalista, secondo Samuels, non sono efficacemente combattute neppure dai critici della sinistra più radicale, che si limiterebbero a far “vergognare” gli avversari, tentando di farli sentire in colpa per le loro parole e i loro pensieri. Un atteggiamento del tutto inutile a bloccare l’ondata populista. Tale critica spuntata sarebbe stata favorita proprio dall’abbandono della psicoanalisi che è un utile dispositivo per contrastare le derive negative del capitalismo e della globalizzazione. Tale rimozione della psicoanalisi, per Samuels, è anch’essa un meccanismo difensivo di natura psicologica, specifico della sinistra, che deriva da una simbolizzazione della creatura freudiana come strumento di oppressione di una classe su un’altra classe, di un genere su un altro genere, di una cultura su un’altra cultura. La psicoanalisi, secondo Samuels, è stata pregiudizialmente dismessa dalla sinistra come disciplina di parte, individualista, maschilista, disattenta alla cultura, addirittura razzista. Al contrario la psicoanalisi, se considerata essenzialmente come un metodo di ricerca, può fruttuosamente essere applicata anche alla politica, soprattutto quando questa presenti certe caratteristiche che la rendono simile alla psicopatologia.