“Chi non è mai stato qui pensa che l’Ilva sia una fabbrica. Ma quando vieni a Taranto ti rendi conto che è una città dentro la città”, mi disse anni fa un operaio dell’ex Ilva, divenuta dal 2017 Acciaierie d’Italia. Non sarà una città vera e propria, ma nel più grande impianto siderurgico d’Europa (15,45 km² circa di estensione) se lavori in reparti differenti puoi non incontrarti mai, anche stando lì per una vita intera. A far collidere condizioni lavorative in apparenza opposte ci pensa adesso Palazzina Laf, interessante esordio alla regia di Michele Riondino, in sala proprio mentre si sta affacciando l’ipotesi liquidazione per lo stabilimento tarantino, dove sono già 3.500 i lavoratori in cassa integrazione a rotazione e ventimila i posti di lavoro a rischio.
Palazzina Laf ci riporta indietro all’Ilva del 1997, due anni dopo che la famiglia Riva ha rilevato l’impianto grazie alla privatizzazione – più simile a una svendita – della Italsider, avviata da Dini e portata a termine da Prodi. Il film si ispira a fatti realmente accaduti e documentati in uno dei primi processi italiani per mobbing, che si concluse nel 2006 con la condanna di undici imputati, fra cui il presidente del Consiglio di amministrazione, Emilio Riva, e il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.
Siamo nel pieno della riorganizzazione del lavoro partita con la nuova proprietà. A mettere in riga i dipendenti, c’è il dirigente dell’ufficio del personale, Giancarlo Basile, un viscidissimo (e un tantino sopra le righe) Elio Germano. I più riottosi finiscono nel reparto punitivo della Palazzina Laf, ex Laminatoio a freddo, dove settantanove fra impiegati e quadri, privati di qualunque incarico, vengono costretti a non fare nulla tutto il giorno. A meno che non accettino il demansionamento o facciano qualche passo falso: “Era iniziato il ricatto occupazionale – spiega Riondino – ma c’era l’articolo 18 e senza giusta causa non si poteva licenziare”.
La Palazzina Laf appare invece come un paradiso a Caterino Lamanna, interpretato dallo stesso Riondino, giovane operaio che si fa “un mazzo così” pulendo i forni della cockeria (dove viene trattato il carbon fossile destinato alla produzione dell’acciaio) e dove lui sa di “respirare merda”. Per essere promosso e passare in Laf con i colletti bianchi, Caterino accetta di diventare la spia di Basile, a cui riferirà tutti i movimenti degli esiliati e dei rappresentanti sindacali.
A differenza di più convenzionali “film di denuncia”, Palazzina Laf sceglie di adottare il punto di vista dell’infame. Ma chi è Caterino Lamanna? Un individualista, insofferente a tutto e che di tutto è già stato espropriato. Vuole un’automobile, vuole sposarsi, liberarsi della cadente masseria di famiglia ai margini dell’Ilva. Non vede che le pecore muoiono avvelenate davanti ai suoi stessi occhi; non vede che la casa nel quartiere Tamburi dove vuole vivere (e dove la zia è morta di tumore) è invasa dalle ceneri industriali; non vede le morti sul lavoro e chi le ha provocate, perché Caterino non vuole vedere: non avrebbe strumenti per poter affrontare tutto questo. Gli echi delle sue scelte, le vertigini, i rimorsi, si muovono solo nel subconscio, che affiora anche grazie a un curatissimo lavoro sul suono e alle pregevoli musiche di Theo Theardo. In sogno, Caterino vede se stesso come un Giuda Iscariota statuario, nell’atto di baciare il Cristo durante la processione del paese. Chi, più di Giuda, può definirsi come l’ultimo degli sconfitti?
Inevitabile il rimando a Lulù Massa, l’operaio individualista e cottimista interpretato da Gian Maria Volonté in La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (qui l’estratto da una scena emblematica del film), che nel 1971 diede fastidio a tutti per come sbatté sul tavolo conflitti e contraddizioni reali. La vita quotidiana nella Laf, così come via via la scopre Caterino, richiama proprio il manicomio (questa la scena) dove è finito Militina, il Salvo Randone operaio impazzito, che nel film di Petri ancora si domanda: “Che cazzo fabbrichiamo noi nella fabbrica? A che servono tutti questi pezzi che fanno a milioni?”.
Nato a Taranto, figlio e nipote di operai di quella stessa acciaieria, il quarantaquattrenne Michele Riondino dimostra di conoscere le realtà che racconta nel suo film. Noto al grande pubblico per avere interpretato Il giovane Montalbano nella popolare serie tv Rai, come attore Riondino si è scelto spesso film non facili (pensiamo a Il passato è una terra straniera, di Daniele Vicari, 2008, o La ragazza del mondo di Marco Danieli, 2016, sull’universo dei testimoni di Geova). Operaio siderurgico era già stato in Acciaio, di Stefano Mordini, 2012, ambientato a Piombino – un personaggio, però, a cui “il lavoro garba”. Al progetto di Palazzina Laf Riondino si è dedicato per sette anni, collaborando prima con il giornalista e scrittore tarantino Alessandro Leogrande, prematuramente scomparso, poi con lo sceneggiatore Maurizio Braucci.
Un film dunque molto voluto e sentito, “politico, ideologico e di parte”, come lo stesso autore ha dichiarato, e coerente con l’impegno di Riondino nell’associazione culturale da lui fondata a Taranto, AFO6 (Alto Forno 6), e il suo sostegno al “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti”, nato a Taranto nel 2012 e formato da “uomini e donne stanchi di dover scegliere tra lavoro e salute”. Con il Comitato, organizzatore fra l’altro della manifestazione annuale “Uno Maggio Taranto”, è da anni impegnato anche Diodato, musicista coetaneo e amico di Riondino, che firma La mia terra, l’intenso brano conclusivo del film.
Di tutti i conflitti in atto a Taranto, e della complessa vicenda della sua acciaieria (qui un articolo di Guido Ruotolo, che ragiona su aspetti più recenti), Riondino sceglie di focalizzare una pars, collocata in un passato non remoto, per alludere al toto dei destini dell’acciaieria e della condizione generale dei lavoratori nel nostro paese. È un presente in cui Caterino Lamanna si sarà giocato i polmoni – o forse la vita; in cui i Riva finiscono coinvolti in ben più pesanti inchieste giudiziarie (il primo grado del processo “Ambiente svenduto” si è concluso con pene fino a ventidue anni di reclusione); in cui l’articolo 18 di fatto non c’è più; in cui le identità lavorative e professionali vengono frantumate dai percorsi accidentati della precarietà, dove l’alternanza fra lavoro e non lavoro è causa di continua sofferenza; in cui l’illusione di farcela da soli (perché ci si crede più bravi o più scaltri degli altri) ha ceduto il posto al senso di impotenza, di rassegnazione o di rabbia senza un bersaglio vero. La dimensione tragica e grottesca, la sofferenza quotidiana in cui sono immersi gli esiliati nel reparto punitivo della Laf, appare come il nostro attuale confino dell’anima. Quelli della Palazzina Laf riusciranno a uscirne grazie all’azione comune e sindacalizzata. E noi, adesso, ce la faremo? “Il cinema non può trovare soluzioni”, ha detto Riondino alla Festa del cinema di Roma. Però può sicuramente cercare di porre le domande giuste.