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L’“Oppenheimer” di Nolan

Un film che conferma le doti di un autore, passato però ormai allo spettacolo

11 Settembre 2023 Antonio Tricomi  416

Le sequenze continuavano a scorrere a ritmo frenetico, e cresceva il sospetto di star assistendo alla non dichiarata riproposizione di un film già visto. Finché, d’un tratto, nessun dubbio: Oppenheimer è la versione normalizzata di The Prestige. Che resta la pellicola tematicamente più ricca, anche perché coerentemente meta-discorsiva, offertaci fin qui da Christopher Nolan. In entrambi i casi, assistiamo alla rappresentazione dei catastrofici effetti provocati da un conflitto tra ossessioni. Quella di primeggiare nell’arte, anzi nello spettacolo dell’illusionismo, che rendeva irriducibili nemici i due maghi al centro della scena nel film di diciassette anni fa, è ricalcata, nell’ultimo lavoro del cineasta inglese, sì dall’ossessione prometeica coltivata dal padre della bomba atomica ma, in egual misura, da similari ossessioni scientiste nutrite da rivali o sodali di costui, e poi da tutta una serie di altre ossessioni – politiche, belliche, di potere o persino romantiche – cui soggiacciono gli altri personaggi di un mondo integralmente raffigurato in stato di euforica o disforica sovreccitazione. Ed è giusto riconoscere che, nel ritrarre individui letteralmente posseduti da un’idea o divorati da un’ambizione, Nolan è sempre stato, e ancora si conferma, abilissimo, pur senza raggiungere le vette di raffinata acutezza toccate da un altro autore dei nostri anni parimenti incline a sondare questo tipo di umanità (e a mettere con rigore a frutto la lezione di Orson Welles): il Paul Thomas Anderson, in particolar modo, del Petroliere, di The Master, del Filo nascosto.

A contendersi la coscienza e le azioni del protagonista di Oppenheimer sono dunque rappresentate forze di segno radicalmente opposto: un entusiasmo demiurgico che non sapremmo dire se divino o luciferino; un desiderio di oltrepassare i limiti della morale praticamente indistinguibile dalla volontà di continuare a porsi scrupoli etici; un impeto creativo sempre pronto a tradursi in gusto dell’annientamento; un’ansia di autoaffermazione costretta a vivere in simbiosi col piacere dell’autodistruzione. Ci troviamo così di fronte non a un canonico personaggio contraddistinto da semplice ambivalenza psicologica, ma a una maschera in frantumi che non può vagheggiare forma alcuna di unitarietà psichica, giacché condannata a rimanere il campo della contesa – imprevedibile e capricciosa, addirittura sopraindividuale – tra tali pulsioni.

E non meno ci troviamo di fronte, nell’ottica di Nolan, alla perfetta controfigura – all’emblema stesso, potremmo forse convenire – dell’individuo moderno. Che già i due illusionisti di The Prestige ci invitavano non a reputare una sorta di superuomo nicciano, realmente in grado, grazie alle proprie facoltà intellettive, di affrancarsi da ogni vincolo o timore impostogli dalla civiltà, ma a giudicare un’equivoca negazione di siffatte volontà e capacità di potenza, se egli finisce piuttosto con l’essere quando schiantato e quando paralizzato dalla scelta di assecondare oltranzisticamente queste sue aspirazioni o attitudini. E anzi finisce, aggiunge Oppenheimer, col nutrire quella che Günther Anders, nell’Uomo è antiquato, denominava “vergogna prometeica”. Con il costruire cioè un mondo figlio sì della sua abilità tecnica, ma nel quale i dispositivi da lui fabbricati, e la bomba atomica su tutti, nel renderlo loro schiavo e, così, nell’umiliarlo, nel costringerlo a riconoscerli nuove divinità cui prestare una devozione assoluta, anche si candidano ad annientarlo, se non a far detonare o implodere l’intero pianeta.

Al suo abituale stilema narrativo, cioè alla disarticolazione del racconto in un vertiginoso accostamento di segmenti diegetici cronologicamente non attigui, Nolan si è sempre affidato per ragioni mimetiche: per farci rivivere il disorientamento spaziotemporale, l’angoscioso e schizofrenico eterno presente in cui ciascuno di noi e dei nostri moderni antenati si trova o si è trovato strizzato per effetto del proprio delirio di potenza e della necessità di alienarlo nelle immagini di grandezza o di godimento prodotte – per dirla con Guy Debord – dalla nostra claustrofobica società dello spettacolo. Tale versione del film esiste, e dunque provate a rivedere le sequenze del primo vero manifesto di poetica del cineasta, ossia Memento, montate non per andare a saldarsi in un intreccio psicotico, ma nel rispetto della fabula. Anche in ragione di una trama con qualche buco narrativo e contraddizione logica di troppo, vi si comporrà davanti agli occhi un semplice neo-noir neppure tra i migliori, invece di quel disperato apologo sulla nostra beffarda condizione di carnefici senza memoria che la pellicola, quale è giunta nelle sale, sapeva e sa tuttora essere.

E tornate a considerare la cifra meta-filmica di The Prestige. Che non si accontentava di ribadire come, a fondamento della succitata società dello spettacolo nella quale viviamo, si trovi la nostra psicopatologica urgenza – pur di alimentare il miraggio di estroflessa pienezza con cui ci balocchiamo – di ridurci a grumi di incoscienza identitaria e di esercitare il piacere della sopraffazione, ma che altresì riconosceva il ruolo storicamente svolto dal cinema, fabbrica di sogni per antonomasia, nella costruzione di una simile forma di organizzazione civile. Perché se ciascun illusionista raffigurato nella pellicola era in fondo anche l’alter ego di un regista, e se il numero di magia perfetto che ogni prestigiatore aspirava a realizzare diveniva metafora di un film così strabiliante da far vacillare l’ancoraggio dei fruitori alla razionalità, ciò che Nolan intendeva allora dirci era che, in conflitto coi propri personaggi e con diversi fra i suoi colleghi, egli voleva proporci un cinema capace di pensare se stesso quale esempio non di mirabolante evasione dalla realtà, ma di ingegnoso intrattenimento critico e autocritico. Quale ingannevole gioco di prestigio che però, nel concedersi agli spettatori, per tale si presentasse, invitandoli a riflettere sulla verità nascosta dietro ogni spettacolo sociale: l’alienazione, che è come dire la morte, di quanti lo architettino o vi prendano parte.

Salvo sovrastimare, a livello tematico, le magnifiche sequenze in cui scienziati e militari assistono alla prima detonazione di un’arma nucleare della storia nell’ambito del Progetto Manhattan come se fossero in un drive-in a godersi la visione di un film – sequenze che tuttavia non costituiscono il disvelamento di una pista di senso coerentemente tracciata dalla pellicola –, in Oppenheimer non rimane pressoché nulla di questa condivisibile decodifica della settima arte quale produzione in serie o calco mercificato dei vari fantasmi dell’immaginario collettivo. Così come si riducono a marcature esclusivamente estetizzanti, cioè a tratti stilistici superflui ai fini della costruzione dei significati dell’opera, il mancato rispetto, nel racconto, dell’effettivo ordine cronologico degli eventi o degli stati d’animo narrati e, per segnalare tale infrazione, la scelta – che contribuiva essa pure, in Memento, a precipitarci dentro la dis-percezione cognitiva patita dal protagonista – di alternare sequenze a colori e sequenze in bianco e nero (verosimilmente incaricate, queste ultime, di veicolare un omaggio al Sidney Lumet della Parola ai giurati). Provate infatti a chiudere gli occhi e a girare voi, nella vostra mente, un Oppenheimer per intero a colori o per intero in bianco e nero ma, soprattutto, un Oppenheimer in cui la trama proceda dal prima al poi: sotto ogni aspetto (concettuale, formale, tematico) il vostro Oppenheimer risulterà sovrapponibile a quello che vi ha accolto in sala. E che, nel concepirsi quale pur eterodosso biopic – nella misura in cui non celebra un eroe positivo né demonizza un eroe negativo, ma ci invita all’epochè su un protagonista del Novecento tanto moralmente indecifrabile da rivelarsi un enigma anche per se stesso –, sembra ambire a guadagnarsi lo statuto di maturo esempio di neo-classica narrazione hollywoodiana, sempre incline ad esaltare la propria natura di mero spettacolo e a respingere l’introiezione di qualsivoglia contravveleno a tale sua fisionomia.

Del resto, già da tempo Nolan ha accettato di orchestrare film apparentemente fedeli alla sua maniera originaria, ma sostanzialmente ligi alle pure logiche del blockbuster: rientrano in questa categoria pellicole quali gli episodi secondo e terzo della saga su Batman, Inception e Interstellar, quell’inutile giocattolone che è Tenet. Lasciandoci in tal modo orfani del più inventivo e sofisticato autore non soltanto di Memento e The Prestige, ma anche di Following e, in quota minore, di Insomnia o persino di Dunkirk. Un autore che – per dirla con una formula indubbiamente invecchiata – si preoccupava di correggere la propria prepotente inclinazione postmodernista coltivando una tenace attitudine modernista.

Se non vuole essere una boutade, il parallelismo tra Nolan e Kubrick, ormai divenuto un luogo comune della critica cinematografica mainstream, è quindi un azzardo interpretativo che rasenta la blasfemia. Un numero di magia monco del prestigio.

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TagsAntonio Tricomi Christopher Nolan film Oppenheimer The Prestige

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