
Quando scoppiano le guerre, c’è sempre qualcuno che ci guadagna. In prima fila ci sono ovviamente le industrie belliche, ma nel caso del conflitto tra la Russia e l’Ucraina il problema dei problemi riguarda la fornitura di gas naturale, che Mosca garantisce ai Paesi dell’Unione europea, e in particolare all’Italia nella misura del 45%. Quantità destinata ora a venir meno. L’Algeria è però pronta a sopperire, sia pure solo in parte, al deficit, essendo già fornitore di questa fondamentale materia prima. Non a caso lunedì – mentre a Bruxelles era in corso una riunione straordinaria dei ministri europei per l’energia – il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, era ad Algeri, insieme all’amministratore delegato dell’Eni, Descalzi, “per rendere operative forniture addizionali finalizzate a tutelare le imprese e le famiglie italiane da questa atroce guerra”. Va ricordato che lo scorso fine settimana il governo Draghi aveva dichiarato lo stato di preallerta sul gas.
L’attore principale di questa nuova fase è Sonatrach, colosso pubblico del Paese maghrebino, che utilizza il gasdotto Transmed per realizzare l’esportazione del gas verso l’Italia, via Tunisia, e che – come ha riferito il presidente del gruppo e amministratore delegato, Toufik Hakkar, in un’intervista rilasciata al quotidiano algerino “Liberté” – “rimarrà un fornitore affidabile di gas per il mercato europeo ed è costantemente disposto a sostenere i suoi partner a lungo termine in caso di situazioni difficili”.
Nel 2021, l’Italia ha consumato 71,34 miliardi di metri cubi di gas, di cui il 37,8% arrivava dalla Russia, che è il primo fornitore, mentre il secondo risulta essere appunto l’Algeria, con una quota del 28,4%. A questo complicato scenario, che coniuga il problema energetico alla geopolitica, se ne aggiunge un altro – che riguarda altri Paesi europei – maturato lo scorso agosto, quando l’Algeria ha rotto unilateralmente le relazioni diplomatiche con il Marocco, a causa delle accuse rivoltele da Rabat circa il sostegno fornito al Fronte Polisario, che si batte per l’indipendenza del Sahara occidentale.
A fine ottobre, Algeri non ha rinnovato il contratto col Marocco per la fornitura di gas, attraverso il gasdotto che forniva anche la Spagna e il Portogallo. A sopperire a questa chiusura, è intervenuto il Medgaz, che unisce direttamente l’Algeria alla Spagna dal 2011. La Sonatrach ha potenziato il volume pompato per garantire lo stesso livello di approvvigionamento.
Secondo alcuni osservatori, la decisione del governo algerino di rompere con Rabat (tema che abbiamo trattato qui) è un tentativo di distrarre la propria opinione pubblica dai problemi endemici che affliggono il Paese. Al riguardo, le sfide di Abdelmadjid Tebboune, ottavo capo dello Stato algerino dal 12 dicembre 2019, nonché ex primo ministro del grande Paese africano, restano ancora lì, tutte sul tappeto.
Da un lato, l’aggravarsi della situazione dovuta alla pandemia non ha certo facilitato le cose. Lo scorso mese – causa la più contagiosa variante Omicron – è stato registrato un nuovo record di contagi, oltre 32.300 con 290 decessi. Sullo sfondo, una modesta campagna vaccinale, solo il 13%, come del resto in tutto il continente africano, con danni contenuti unicamente a causa della minore letalità della variante.
Dall’altro, la disaffezione degli algerini e delle algerine che, dopo due anni di proteste, si rendono conto di avere ottenuto poco o nulla in termini di maggiore partecipazione e libertà all’interno del Paese. Per aumentare la propria popolarità, il presidente e il premier, Aïmene Benabderrahmane, si sono posti l’obiettivo di sconfiggere l’endemica corruzione che caratterizza la storia del Paese, identificata, in particolare, con la figura del vecchio presidente Abdelaziz Bouteflika, il cui fratello Saïd, insieme ad altre figure del regime, è finito nel mirino della magistratura che ha comminato loro pene dai due ai sette anni. Per raggiungere questo obiettivo, il governo ha istituito l’Alta autorità per la trasparenza e la lotta alla corruzione, prevista dalla nuova Costituzione promulgata nel novembre del 2020.
Per Federico Borsari, esponente dell’Ecfr (European Council on Foreign Relations), think tank paneuropeo che si occupa di tematiche internazionali, “l’Algeria rimane nella fascia dei Paesi con il maggiore indice di corruzione percepita secondo il ranking stilato da Transparency International, mentre in base ai dati relativi al 2021 raccolti da Arab Barometer, il 78% dei cittadini algerini intervistati ritiene che ci sia un livello medio-alto di corruzione all’interno delle istituzioni”.
Le recenti manifestazioni di protesta hanno spinto il governo a una maggiore attenzione al problema, proponendo anche agli altri Paesi della regione “una battaglia comune – sottolinea sempre Borsari – attraverso un’iniziativa panaraba avanzata dall’Algeria durante la 37a sessione del Consiglio dei ministri della Giustizia dei Paesi arabi, tenutasi recentemente al Cairo”.
L’altra preoccupazione del governo riguarda il rinnovamento della classe politica, che però non riesce a fare i conti con le esigenze della popolazione manifestate, come abbiamo già detto, attraverso la rivolta del 2019, che ha visto protagonista il movimento di protesta popolare e nonviolenta, detto Hirak.
Per volgere a proprio favore le rivendicazioni del movimento, Tebboune ha istituito il 22 febbraio, data dell’inizio della rivolta, come “Giornata nazionale della fratellanza e della coesione tra il popolo e il suo esercizio per la democrazia”. Ma a questo riconoscimento formale delle richieste del movimento, che aveva costretto l’allora presidente Bouteflika (deceduto poi lo scorso settembre) alle dimissioni, dopo vent’anni alla guida del Paese, non hanno fatto seguito fatti concreti, e l’Hirak è stato soffocato.
Dopo la vittoria nel 2019 di Tebboune, la successiva consultazione elettorale, finalizzata a modificare la Costituzione nel novembre 2020, non ha ottenuto i risultati che il governo si attendeva. Bassissima la partecipazione al voto, soltanto del 23%, dato confermato sia nelle successive elezioni parlamentari dello scorso giugno sia nelle amministrative di novembre, vinte ancora una volta dal vecchio Fronte di liberazione nazionale (Fln) e dal Raduno democratico nazionale (Rdn), che garantiscono un sostegno indiscusso al presidente. Il risultato dei vari appuntamenti elettorali è sempre stato contestato dall’opposizione, costretta a subire il soffocamento del dissenso.
Al riguardo, il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti denuncia la detenzione di trecento prigionieri di opinione. Alcuni dei quali restano in carcere diversi mesi in attesa del processo. Se a questo aggiungiamo che il Partito socialista dei lavoratori (Pst) è stato sospeso, e che altri due, l’Unione per il cambiamento e il progresso (Ucp) e il Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rcd), tutti e tre attivi all’interno di Hirak, rischiano di subire la stessa sorte, è evidente che si è ancora ben lontani da una reale democratizzazione del Paese.