Bersani e D’Alema hanno avuto ruoli di primo piano nelle forze venute a sinistra dopo il 1989. Il primo è stato segretario del Pd, il secondo segretario del Pds e dei Ds prima di lasciare l’incarico a Veltroni e scegliere l’avventura di diventare premier. Hanno fallito entrambi prima della loro rottura con la segreteria di Renzi: hanno dovuto separarsi dal Pd per formare Articolo uno, un piccolo movimento. Questa traiettoria da sconfitti li rende poco “spendibili” nell’attualità politica: hanno fatto il loro tempo e hanno avuto le loro chance. Si può ascoltare quello che dicono come “consigli”, “memoria”, analisi.
Eppure – bisogna ammetterlo – da un po’ di tempo ripetono un ritornello che è difficile non condividere. Abbandonata l’illusione di formare un unico partito a sinistra del Pd (la triste parabola di Liberi e uguali), insistono nel chiedere una “novità”, che sarebbe poi lo scioglimento del Pd ritenendo fallita l’operazione politico-culturale di unificazione Margherita-Ds. A questo dovrebbe seguire un processo di aggregazione di forze, movimenti, associazionismo per dare vita a una organizzazione nuova nelle sue “forme”: non un classico partito, bensì una confederazione di forze che innovi il modo di stare insieme e produrre decisioni. Sarebbe il “fatto nuovo” che Bersani invoca con più forza di D’Alema grazie alla sua simpatica vocazione per le metafore (ricordate la mucca in corridoio per segnalare l’avanzata della destra?).
Viene in mente il Congresso di Epinay del 1971, quando i socialisti francesi rifondarono il proprio partito chiamando a raccolta forze e personaggi nuovi (Jacques Delors, per esempio). Iniziò allora un percorso nuovo che portò Mitterrand alla presidenza della Repubblica. Ci sono momenti infatti in cui la politica richiede coraggio e fantasia. Questo italiano dovrebbe essere uno di questi per uscire dal grigiore e dallo schiacciamento eccessivo sul governo Draghi.
C’è un piccolo problema sulla strada di una “Epinay all’italiana”: cosa è diventato il Pd? Sembra un agglomerato di correnti e correntine, di lobby, di realtà territoriali scollegate, di pezzetti di governo locale e nazionale. Poco lavoro culturale, poca strategia. È più un serbatoio passivo di voti nei momenti elettorali che altro. Inoltre, ci sono gruppi dirigenti e parlamentari (forse la maggioranza) affascinati tuttora dal “renzismo” centrista. E ancora, il segretario Zingaretti (ultimo di una lunga serie) non trova di meglio che fare un twitter pieno di simpatia a Barbara D’Urso, vedette di Canale 5, dopo il suo recente “o Conte o elezioni” prima di appiattirsi sul governo Draghi. Qualcuno, inoltre, dopo la querelle sulla presenza di donne piddine nel governo, chiede già le dimissioni di Orlando da vicesegretario perché diventato ministro del Lavoro. C’è voglia in questi giorni di una ennesima resa dei conti nel Pd che va sotto il nome di “congresso in tempi rapidi”. Un congresso di certo serve ma per sciogliere questo Pd.
Alla proposta di Bersani e D’Alema non ci sono molte alternative. O mettere insieme i pezzi di una sinistra radicale sempre più residuale (Rifondazione, Sinistra italiana, eccetera) inseguendo il miraggio di un polo rosso-verde (i Verdi non ci stanno a questa prospettiva, lo hanno detto mille volte) o dedicarsi a esperienze esemplari sul territorio pensando a tempi lunghi, lunghissimi, per ricostruire qualcosa che assomigli a un partito di sinistra e a una cultura rinnovata di sinistra a dimensione europea.