Il vaccino russo anti-Covid Sputnik V (a proposito: V sta per Vektor e non per il cinque in numeri romani antichi) va bene dappertutto, tranne che in Russia. Sono centinaia di migliaia le dosi vendute in diversi Paesi del mondo: dall’Argentina al Venezuela alla Serbia e alla Bolivia, tanto per fare qualche esempio. Per non parlare dei contatti in corso con l’Unione europea, con la Germania che vede con un certo favore l’introduzione del vaccino dell’istituto Gamaleya di Mosca nei prontuari nazionali per combattere il coronavirus. Ma è proprio in Russia che le cose non vanno come dovrebbero. Anzi, per l’esattezza, il piano di vaccinazione, da Mosca a Valdivostok, “gira a vuoto”, tanto per prendere in prestito il termine usato dal quotidiano Komsomol’skaja Pravda che ha pubblicato un articolo dettagliato sulla situazione sanitaria nel Paese per quanto riguarda la lotta al Covid.
A fronte di circa 150 milioni di abitanti e considerando il lancio della “vaccinazione di massa” annunciato dal presidente Vladimir Putin a partire dal 18 gennaio, i cittadini russi a cui è stato somministrato il vaccino, a oltre un mese di distanza, sono appena poco più di due milioni. L’accusa, piuttosto circostanziata, arriva peraltro da uno dei giornali russi più filo-Cremlino, come è appunto la Komsomol’skaja, che rincara la dose: i dati pubblicati sulla stampa non sono nemmeno certi perché al momento nessun istituto o organismo sanitario statale riesce a fornire con esattezza queste cifre. Di questo passo, osservano gli analisti, ci vorranno almeno 547 giorni (vale a dire un anno e mezzo) prima di poter raggiungere col vaccino tutta la popolazione russa, dagli Urali all’Estremo oriente del Paese.
Un motivo che giustifichi tanto disservizio è difficile da individuare. La Komsomol’skaja ne ipotizza cinque. Proviamo ad elencarli: innanzitutto, la produzione del vaccino è in mano ai privati. L’interesse commerciale (oltre al fattore politico rappresentato dal ritorno d’immagine a livello internazionale per un dispositivo allo stesso momento così urgente ed efficace, almeno a giudicare da articoli scientifici come quello pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet) è indubbiamente uno dei possibili motivi. In pratica, la distribuzione del vaccino nelle varie repubbliche, regioni o distretti della Federazione russa, è in mano a una società, la “Immunotekhnologij”, creata ad hoc dalla grande Cassa di risparmio russa, la Sberbank. Uno tra i paradossi di tutta la faccenda è che, come scrive la Komsomol’skaja, il vaccino Sputnik costa meno agli Stati esteri che all’interno del mercato russo stesso: fuori dai confini infatti il prezzo di una dose è di 1500 rubli (circa 20 euro o poco meno) mentre la tariffa imposta dal distributore in Russia è di 1942 rubli (quasi 25 euro). Dare una lettura logica a questo dato non è facile: potrebbe essere una tariffa “di favore” per venderlo all’estero (e incassare così in ritorno d’immagine per quanto riguarda l’efficienza del Paese) oppure qualcuno, all’interno dell’asfittica burocrazia russa, fa “lievitare” il costo per incassare qualcosa. La questione del prezzo delle dosi si va ad aggiungere ad una serie di problemi strutturali del sistema-Russia: la difficoltà di centralizzare i dati sul numero di vaccinazioni, a causa dell’immenso territorio e per il fatto che nelle diverse parti di quel territorio l’operazione viene gestita in modo diverso da un’istituzione a un’altra, creando confusione nella spedizione dei numeri reali. A tenere in mano il terminale della “vaccinazione di massa” annunciata da Putin, dovrebbe essere il ministero della Sanità. In realtà i dati sono a disposizione della Rfpi, il Fondo di Stato per gli investimenti, una sorta di Cassa Depositi e Prestiti russa. Ma anche in quel caso i dati sono incompleti o di difficile lettura. Spesso vengono sommate le dosi di vaccino inviate nei territori a quelle effettivamente somministrate. Persino per le cosiddette categorie a rischio o che abbiano in ogni caso una qualche priorità, come i sanitari, i militari, i lavoratori del trasporto, le somministrazioni appaiono ad oggi ben al di sotto degli obiettivi previsti: in alcuni casi, a fronte di decine di migliaia di operatori appartenenti alle suddette categorie, si calcolano al momento poche migliaia di vaccinati se non addirittura di centinaia.
Una macchina inceppata, insomma, che comunque le autorità promettono di rimettere in moto nelle prossime settimane. Ancora altre criticità nel progetto putiniano di “vaccinazioni di massa” provengono da altri due fattori: il primo, nella difficoltà di produzione di un vaccino basato sulla tecnica dell’adenovirus, più complicato rispetto alla tecnica m-RNA di Pfizer e Moderna, anche se la stessa Komsomol’skaja fa notare che l’Astrazeneca ha una produzione doppia rispetto allo Sputnik, pur utilizzando lo stesso meccanismo vettoriale dell’adenovirus. L’ultimo elemento di freno al progetto di vaccinazione in Russia è forse quello che meno ti aspetti: la diffidenza della popolazione verso lo Sputnik. “Troppo poco tempo per creare quel vaccino”, è il refrain dei dubbiosi. L’argomentazione peraltro somiglia in modo curioso alla stessa che per mesi la stampa estera e occidentale ha utilizzato verso il vaccino prodotto da Gamaleya: non ci si può fidare perché la tempistica per la sua realizzazione è stata troppo veloce (non facendo mancare, peraltro, sospetti di propaganda da parte del Cremlino che in questo modo avrebbe posto la sua bandierina per primo, nella corsa a quello che qualcuno definisce “il nuovo petrolio”). Argomentazioni che poi, come si è visto, sono state smentite una volta resi pubblici i dati della sperimentazione. Ma in Russia, dove l’utilizzo di internet è capillare e diffuso (sicuramente più che in un Paese occidentale come l’Italia, per esempio), il tam tam internazionale del dubbio, una volta partito, lascia poi inevitabilmente le sue tracce.