L’autorevolezza riconosciuta di Mario Draghi gli risparmierà probabilmente l’imbarazzo che sarebbe toccato ad altri dopo la scoperta, ad opera del giornalista economico Carlo Clericetti, che le sue dichiarazioni programmatiche in parlamento avevano ampiamente saccheggiato (senza citare la fonte) un articolo dell’amico economista Francesco Giavazzi sulla riforma fiscale. “Non è una buona idea – ha osservato il presidente del Consiglio parlando nell’aula del Senato – cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”. C’è dunque la dichiarata ambizione di mettere mano a una riforma di sistema. Senza la pretesa di analizzare il background culturale – o l’apparato ideologico – dell’intero discorso, ci limitiamo qui a cercare di intravedere quale potrebbe essere la direzione di marcia su questa specifica materia. Certo, potrebbe suscitare qualche perplessità preventiva il ricorso a un pensatore graniticamente ancorato alla fazione neoliberista più entusiasta, portabandiera fra l’altro, con il suo collega scomparso nel 2020 Alberto Alesina, dell’idea invecchiata maluccio della cosiddetta “austerità espansiva”.
Draghi ha ricordato, ripercorrendo ancora il testo a suo tempo pubblicato dal “Corriere della sera”, come “ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata”. Questo è un punto non secondario: l’articolo 53, secondo comma, della Costituzione repubblicana recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Lo stesso Draghi, che ha citato anche la riforma italiana elaborata negli anni 70, ha poi spiegato che “va studiata una revisione profonda dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche, ndr) con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.
La situazione italiana
Il reddito complessivo totale dichiarato ammonta a circa 880 miliardi di euro. I redditi da lavoro dipendente e da pensione “rappresentano – si legge in una sintesi diffusa nel 2020 dal ministero dell’Economia e delle Finanze – circa l’82% del reddito complessivo dichiarato, nello specifico, il reddito da pensione rappresenta il 29% del totale del reddito complessivo. Il reddito medio (pro-capite, ndr) più elevato è quello da lavoro autonomo, pari a 46.240 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori (titolari di ditte individuali) è pari a 20.940 euro. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 20.820 euro, quello dei pensionati a 17.870 euro”. È evidente dunque la centralità dell’Irpef nel sistema tributario italiano, come è visibile il peso del prelievo che grava su alcune categorie di cittadini.
Secondo l’editorialista del “Corsera”, nella riforma danese del 2008 “l’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta di 5,5 punti percentuali”, dettaglio omesso nel suo discorso parlamentare dal presidente del Consiglio. Secondo Clericetti che ha scoperto il “copia/incolla” governativo, questa tabella invece dimostra che “l’aliquota marginale danese, che nel 1993 era del 68,7% e nel 2008 era scesa al 63, fu portata nel 2010 al 56,1”, uno sconto, per la fascia di reddito più ricca, vicino al 7 per cento sull’ultimo scaglione di tassazione. Dal momento che Draghi ha citato esplicitamente l’abbassamento dell’aliquota marginale massima, va precisato che in Italia questa è ben lontana anche dai livelli post-riforma della Danimarca e – in linea con una tendenza globale che ha preso corpo soprattutto dagli anni Ottanta in poi – è stata ripetutamente abbassata, dal 72 per cento del 1974 all’attuale 43 per cento (è al 45 in Germania, Spagna, Regno Unito e anche in Francia, dove però si calcola in riferimento al quoziente familiare). È passato da 32 a 5 il numero di scaglioni sui quali si articola l’Irpef, lo strumento principale della progressività. Infine, è stata abbassata la soglia massima di reddito da “penalizzare” con l’aliquota più alta, un tempo fissata a 600 milioni di lire, nominalmente equivalenti a 310mila euro circa, oggi ferma a 75mila euro, a tutto vantaggio delle fasce di reddito superiori a questa soglia.
Naturalmente il sistema è più complesso e comprende altri strumenti di riferimento (detrazioni, deduzioni, eccetera): le aliquote ne indicano solo lo scheletro, l’impostazione di fondo. Ma merita una segnalazione, a questo proposito, il fatto che nello studio “Dove va l’economia italiana e gli scenari di politica economica” presentato da Confindustria nell’autunno 2019 il focus sul riordino delle aliquote non prende in considerazione quella massima, ma piuttosto un alleggerimento dei livelli medio-bassi: “Sostituire l’aliquota marginale nominale attualmente in vigore sul secondo scaglione IRPEF con l’aliquota del primo scaglione – si legge nel rapporto – comporterebbe risparmi fiscali per il 56 per cento dei contribuenti IRPEF e un costo per lo Stato di circa 8 miliardi di euro. Questa ipotesi appare più ragionevole rispetto ad alternative di cui si è discusso nei mesi passati, quali: i) l’accorpamento del secondo e terzo scaglione IRPEF, che farebbe lievitare il costo di ulteriori 4 miliardi e comporterebbe risparmi per meno di un quarto dei contribuenti; ii) l’introduzione di un’aliquota al 15 per cento fisso fino a 55mila euro, che costa troppo (80 miliardi)”.
Il governo appena insediato avrà tempo, ovviamente, di elaborare la promessa “revisione profonda”, di precisarne i dettagli, di farci capire se e in che misura verrà interessata la tassazione sul capitale, oggetto di recenti interventi di alleggerimento, e se troveranno spazio le ipotesi di patrimoniale o anche solo della cosiddetta “paperoniale”, contributo di solidarietà a carico dei più ricchi, oggetto di un recente appello di economisti che propongono di intervenire in modo progressivo, sia pure con aliquote inferiori all’1 per cento, sullo stock di ricchezze finanziarie nazionali stimato attorno ai quattromila miliardi. Sarà indicativa già la scelta degli esperti chiamati a studiare il progetto di riforma fiscale.
Ma fra le cose pur significative che Draghi ha accennato i temi più importanti, forse, sono quelli che sono mancati del tutto. Pur avendo rivendicato, sventolando la suggestiva bandiera dell’europeismo, la necessità di una cessione di “sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”, ed avendo compiuto il rituale omaggio alla necessità della lotta all’evasione fiscale, non ha fatto alcun cenno al dibattito europeo in corso su temi decisivi. Eppure nello scorso mese di gennaio, con 587 voti favorevoli, 50 contrari e 46 astensioni, il Parlamento europeo ha certificato il fallimento di Bruxelles nella riconquista di una effettiva “sovranità fiscale” continentale, approvando una risoluzione nella quale definisce “confuso e inefficace” l’elenco Ue dei paradisi fiscali istituito nel 2017. Secondo il Tax Justice Network, le perdite annuali che gli Stati registrano a livello globale a causa dei paradisi fiscali ammontano a 427 miliardi di dollari.
Infine: si può oggi parlare di fisco senza citare lo scontro globale in corso da anni sulla tassazione dei profitti delle grandi compagnie digitali? Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, ha ribadito recentemente che in mancanza di una intesa globale, l’Europa dovrà agire da sola. La vecchia amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha attivamente boicottato l’iniziativa, minacciando sanzioni: ma non ci sono segnali per ora che con Joe Biden, che pure renderà meno contraddittorio il richiamo contemporaneo all’atlantismo e all’europeismo, le cose su questo punto siano destinate a cambiare a breve. È una partita decisiva per l’equilibrio delle finanze pubbliche, per la tenuta della sovranità fiscale (che sia nazionale o europea), per il futuro dell’Unione. Da che parte starà il governo Draghi?