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Riflessioni intorno al voto francese
Il voto francese appare come una spettacolare, densa dimostrazione di quel processo che Gramsci avrebbe definito di “disassimilazione” della classe dirigente di un Paese. Più precisamente, l’autore dei Quaderni dal carcere così scriveva, analizzando i prodromi di una insufficiente egemonia politica di una classe di potere che, già prima della seconda guerra mondiale, gli appariva ormai “saturata”: “Non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)”. Una fotografia perfetta di quanto sta accadendo in Occidente, e che in Francia è diventata dinamica elettorale.
Se anche noi potessimo guardare dall’alto, attraverso un satellite della storia – così come oggi si analizza il teatro di guerra in Ucraina, grazie ai sistemi di monitoraggio dallo spazio della flotta privata di Elon Musk –, vedremmo un pianeta in cui il potere si restringe, si satura nelle sue capacità di rappresentanza, irrigidendosi in autarchie a Est e in plutocrazie tecnologiche a Ovest. In mezzo, osserveremmo le maree di oceani sociali senza partito e senza sindacati, in preda all’ansia individuale di allontanarsi dalle ultime posizioni, cercando di assomigliare sempre più alle odiate élite che si vorrebbero combattere.