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Il “no” francese all’estradizione degli ex brigatisti italiani
Si sta concludendo come non poteva che concludersi l’assurda vicenda della richiesta di estradizione alla Francia – a distanza di quaranta o cinquant’anni dai fatti – di un certo numero di ex brigatisti (o appartenenti ad altri gruppi della cosiddetta lotta armata) condannati per gravi reati. In punta di diritto, e l’avevamo in un certo senso preconizzato (vedi qui e qui), era pressoché impossibile che la cosa andasse diversamente. La giustizia francese non si sarebbe piegata al tardivo ghiribizzo del governo italiano in carica, in particolare ai desiderata della zelante ministra della Giustizia. Non è stato neppure considerato il “caso per caso” – né la circostanza che uno dei riparati a Parigi, Giorgio Pietrostefani, condannato per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972, sia in precarie condizioni di salute. No. Il verdetto della Corte francese è stato netto: tutti non estradabili. Leggeremo le motivazioni; intanto è già emerso, però, un riferimento alla contumacia. La Francia ha un ordinamento diverso da quello italiano al riguardo: quando ci sia la comparizione di un imputato precedentemente giudicato in contumacia, il processo va rifatto, mentre nel nostro Paese non è affatto così. E bisogna aggiungere – fu, in definitiva, la ragione della “dottrina Mitterrand” a suo tempo – che i processi per terrorismo sono avvenuti sulla base di una legislazione speciale che dà grandi vantaggi ai pentiti.
Prendiamo Pietrostefani. Il suo accusatore, Leonardo Marino, autoproclamatosi esecutore materiale dell’omicidio Calabresi, insieme con Ovidio Bompressi (che ha poi beneficiato della grazia), non è stato condannato a un bel nulla per via delle dichiarazioni rese; Pietrostefani e Sofri, invece, a pesanti pene come mandanti. Non è in discussione qua la loro colpevolezza o innocenza. La questione concerne la possibile distorsione indotta dalla legislazione sui “collaboratori di giustizia”. Lo sappiamo, essa è anche servita per perseguire i delitti di mafia. Ma nel caso di Pietrostefani (tra parentesi, militante di Lotta continua, cioè non esattamente di un’organizzazione terroristica) è lecito il dubbio che la versione del suo unico accusatore, pur magari veritiera nell’essenziale, abbia coperto le responsabilità di altri per addossare tutte le colpe sui dirigenti del suo gruppo politico. In altre parole, a distanza di cinquant’anni, esiste una verità storica su quell’omicidio; ma, dal punto di vista processuale, si può pensare che si tratti al più di una mezza verità. Sarebbe tuttavia privo di senso anche solo ipotizzare che quel processo possa essere rifatto. Appare quindi giusto il verdetto della Corte francese per il “no” all’estradizione.