
Il cinema propone a volte figure di fuorilegge intelligenti, nei cui confronti si finisce per provare una più o meno involontaria simpatia, per la loro capacità rocambolesca di cavarsela, o per l’inventiva di cui si mostrano capaci, e con cui risolvono situazioni in apparenza disperate. Beppe Sala potrebbe rientrare in questa categoria. Con artifici solo in parte pervenuti agli onori della cronaca, riuscì a ribaltare (naturalmente a spese pubbliche) l’immagine di una Expo di Milano 2015 frettolosamente organizzata e, prima del suo arrivo come commissario unico, mal gestita: un Grande Evento sostanzialmente mancato, che pareva fatalmente avviato al fallimento. L’Expo in realtà non fu un successo, rimasero un buco economico, edifici di cui non si sapeva bene cosa fare e ombre gestionali (ci fu un processo per gli appalti facili concessi agli amici), ma fu abilmente raccontato e venduto come tale, e contribuì così a invertire la narrazione del declino.
Nel decennio successivo, multiforme e poliedrico sindaco, Sala ha contribuito al rilancio internazionale di una città che attraversava una fase di stagnazione economica e di crisi, come del resto il sistema Paese in cui è inserita. Oggi gli viene presentato il conto giudiziario di quasi dieci anni di amministrazione spregiudicata. Molte cose sono state dette al riguardo: in passato le tempestive denunce di Lucia Tozzi (vedi qui), gli esposti dei collettivi, poi l’appello degli urbanisti del Politecnico, da ultimo le giuste considerazioni di Elena Granata. Personalmente, condivido la stragrande maggioranza di queste critiche e osservazioni, ma penso – e l’ho scritto già in passato – che la responsabilità principale di Sala, al di là di quelle di cui dovrà rispondere legalmente, sia stata quella di avere avviato Milano su un percorso sostanzialmente sbagliato come direzione, al di là di quelli che sono stati gli espedienti tecnici più o meno leciti utilizzati per raggiungere gli obiettivi.
Il disastro dell’urbanistica milanese nasce anche da queste scelte, oltre che da una perdita di forza della capacità di incidere da parte della pianificazione. L’idea errata, nata certo da una situazione di oggettiva difficoltà della città, se non di vera e propria disperazione di fronte al rischio di perdere il treno delle “città globali”, è stata quella di scommettere principalmente sull’immobiliare. Certo, anche qui le responsabilità non sono solo di Sala: il processo era già stato avviato con Pisapia sindaco, c’erano in giro grandi capitali internazionali, fondi sovrani in cerca di valorizzazione, ricerca che si è fatta addirittura frenetica nell’immediata fase postpandemica, quando bisognava mettere al sicuro, sul terreno della città, gli enormi profitti realizzati durante la pandemia dalle grandi piattaforme. E c’erano anche a disposizione tante zone della città appetibili e sottovalutate, bersaglio ideale per la gentrificazione, come insegnano i teorici del rent gap.
La stagione ambigua della rigenerazione urbana in salsa milanese, che ha attirato quattrini a palate in città, rimasti peraltro in poche mani, è nata dunque in questa particolare congiuntura. Il Comune ha perseguito a qualunque costo l’obiettivo strategico di attirare capitali, concedendo oneri di urbanizzazione bassissimi (un sesto che a Berlino!) a chi costruiva. Il tutto accompagnato da figure di “facilitatori” che davano una spintarella a determinati progetti, con il rafforzamento dovuto al susseguirsi di Grandi Eventi che contribuivano a far circolare la nuova immagine della città – e a venderla a livello internazionale. La ricetta, a modo suo, ha funzionato, producendo enormi valori per la rendita, ma non è stata sostanzialmente in grado di interrompere un ciclo involutivo sotto il profilo della produzione e dei settori avanzati, che sta facendo perdere terreno a Milano da decenni. Lo spadroneggiare del capitalismo finanziario, che nelle sue forme moderne volentieri si sposa alla rendita urbana, ha fatto passare in secondo piano la necessità di investire in sapere, brevetti, formazione avanzata.
Su questa via, però, Sala ha perseverato ed esagerato, facendo l’asso pigliatutto: se ne accorse, per tempo, un altro personaggio che è tutto meno che stupido, come il ceo di Coima, l’immobiliarista Manfredi Catella, oggi coinvolto nello scandalo, quando qualche anno fa dichiarò, in una singolare intervista al “Sole 24ore”: “A Milano c’è troppa speculazione immobiliare”. Non era umorismo paradossale e autocritico; si trattava semplicemente della constatazione che il meccanismo innescatosi rischiava di ricadere su se stesso, e stava producendo effetti collaterali devastanti. Il “re degli immobiliaristi milanesi” esitava, preoccupato di fronte al precipitare sulla città di capacità di investimento molto più grandi delle sue, vedendo l’affacciarsi di global players in grado di riversare miliardi di euro nel “grande affare Milano”.
Purtroppo, al di là della speculazione, non c’era molto altro. Mentre Milano, in apparenza, lottava per mantenere il suo ruolo nell’ambito delle città globali – come hanno ricordato, con goffi e maldestri riconoscimenti a Sala, Carlo Ratti e Mario Botta su “La Stampa” –, in realtà perdeva terreno, dato che la monocoltura dell’immobiliare l’allontanava dai settori avanzati, dalle tecnologie, dalle filiere della produzione immateriale. I giovani qualificati venivano marginalizzati e sottopagati, a volte costretti ad andarsene, e la vantata attrattività funzionava sì per i turisti, per i quattrini in cerca di facile valorizzazione, ma non funzionava affatto per gli skilled workers internazionali, respinti dalla difficoltà di trovare casa, dal costo della vita, dall’inquinamento spaventoso (la sesta città più inquinata al mondo).
Nel frattempo, come peraltro da un pezzo è stato mostrato dalla modellistica sociologica su questi temi, il primato dell’immobiliare produceva un aumento delle disuguaglianze, dovuto a un aumento degli estremi: in casi simili, avviene che i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri (in termini relativi o assoluti), mentre i gruppi di reddito medio diminuiscono. Quando il centro di Milano si affolla di redditi intorno ai 140.000 euro all’anno, l’aumento della disuguaglianza socio-spaziale diviene evidente, come conferma del resto la tendenza alla periferizzazione o alla suburbanizzazione della povertà. Si parla anche di “polarizzazione” per casi analoghi: se a Milano ci sono delle differenze, si può dire che sia andata anche peggio rispetto ai modelli descritti sopra, dato che è stata allontanata dal centro una parte molto rilevante del ceto medio, che con cinquantamila euro di reddito annuo non poteva reggere gli affitti, e meno che mai acquistare.
Può darsi che sia vero quanto afferma sul “Fatto” Marco Travaglio, e cioè che con i suoi precedenti Sala non avrebbe mai dovuto diventare sindaco, mestiere che certo ha fatto nelle sue consuete maniere, ma non senza centrare gli obiettivi, ossessivamente perseguiti, sebbene errati. Pur non nutrendo simpatia per il sindaco, si potrebbe dire, però, che la vera colpa di Sala non sia tanto (o non solo) quella riconducibile alle azioni certo censurabili del “partito del cemento” o agli illeciti urbanistici, ma sia più radicale e più grave: quella di avere fatto di Milano una città arretrata e divisa, di averla condotta su un binario morto, da cui sarà molto difficile ripartire, a meno di un sussulto senza precedenti di coscienza civile, da parte degli abitanti, e di capacità ideativa e politica.