
Mentre Almasri è ora indagato a Tripoli, e si discute ancora dell’espulsione di Piantedosi e di altri ministri di Paesi dell’Unione europea da Bengasi, la situazione in Libia si complica. Il paradosso della vicenda Almasri è che, dalla metà di maggio, le autorità libiche abbiano tolto l’immunità ad Almasri, e che in questi giorni la stessa Forza speciale al-Radaa, di cui era al vertice, lo abbia scaricato. In Libia si teme che la Corte penale internazionale intensifichi i suoi procedimenti contro i criminali oggi in posti di responsabilità, e che ciò possa indebolire la reputazione internazionale delle autorità che rappresentano.
Intanto, a Roma, il Tribunale dei ministri dovrà trarre le conclusioni delle indagini in corso sulle responsabilità del mancato arresto di Almasri. Dalla documentazione emersa, risulta che il ministro Nordio fosse a conoscenza della situazione, e del resto sarebbe paradossale il contrario, visto che ha manovrato “contro” – altra ovvietà, visto che ha già argomentato i motivi per proclamarsi innocente. Il fatto che ora si indaghi per la divulgazione di atti coperti dal segreto appare come un tentativo di distrarre l’attenzione dall’essenziale. Ma è bene, per chiarezza, ripercorrere le tappe di questo ennesimo pasticcio all’italiana.
Almasri – ovvero Nejem Osama Almasry, già comandante della polizia giudiziaria e responsabile della famigerata prigione di Mitiga – viene arrestato dalla Digos il 19 gennaio di quest’anno, a Torino, nell’albergo in cui soggiornava, in base a un mandato di arresto emanato il giorno prima dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La Corte aveva inviato la richiesta a sei Paesi europei in cui il ricercato avrebbe potuto muoversi; per l’Italia il punto di riferimento è la sua ambasciata all’Aia, dove ha sede la Corte, e per questo il ministro Nordio era formalmente al corrente. Com’è noto, due giorni dopo, Almasri viene liberato, “espulso” con un volo di Stato verso Tripoli. Da allora, si assiste a un continuo arrampicarsi sugli specchi per giustificare la grave inadempienza, che si configura come complicità nei confronti di un criminale.
Tecnicamente, è la Corte d’appello di Roma, su richiesta dell’avvocato di Almasri, a chiedere la scarcerazione dopo che il procuratore generale esprime parere favorevole, poiché il ministro Nordio, pur informato del caso fin dal 20 gennaio dallo stesso procuratore, non ha preso alcuna iniziativa per la convalida dell’arresto. E Nordio farà sempre riferimento alla decisione della Corte d’appello per giustificare la sua inazione, in un evidente circolo vizioso. Una settimana dopo l’espulsione-rimpatrio di Almasri, il procuratore si mette al riparo dal suo avventato parere, iscrivendo nel registro degli indagati Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mantovano. Il 17 febbraio, la Corte penale internazionale chiede spiegazioni al governo italiano sulla non collaborazione per l’arresto di Almasri. Il governo chiede due proroghe, prima di degnarsi di dare una risposta il 30 aprile, trasmessa dopo una settimana alla Corte.
In sostanza, il governo dà la responsabilità alla Corte d’appello di Roma, sulla cui decisione non ha alcun potere d’intervento; afferma di avere ricevuto, nello stesso tempo, una domanda di estradizione da parte del governo libico per i medesimi misfatti. Va aggiunto che Almasri è stato poi trionfalmente accolto a Tripoli, ma questo il governo finge di non saperlo; sostiene piuttosto che proprio la pericolosità di Almasri imponeva la sua espulsione da parte di Piantedosi per proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Inoltre, il governo accusa la Corte penale internazionale di avere fornito una documentazione incompleta e contraddittoria che – detto con minore eleganza – avrebbe messo in confusione Nordio.
La Corte ha più volte sottolineato la mancanza di collaborazione del governo italiano, che non l’ha consultata, come prevede lo Statuto, in caso di difficoltà. Nella sua risposta, il governo ammette tale negligenza, ma l’attribuisce alla particolarità delle circostanze (cioè proprio quelle che avrebbero semmai imposto la consultazione), e proclama la sua rispettosa osservanza delle norme interne e dello Statuto della Corte. Per questo motivo, chiede di non finire nella lista dei “cattivi” – come invece la Corte farà, informando il Consiglio di sicurezza sul comportamento dell’Italia.
In questo castello di codicilli giuridici e di scuse inverosimili da chi si è fatto trovare con le dita nella marmellata, appare ancora più chiaro che le motivazioni sono state esclusivamente politiche. Bisogna peraltro dare atto al governo di avere un alto profilo etico: ha talmente coscienza della porcata fatta, da cercare di nasconderla sotto una valanga di non sensi, dalla quale – non è difficile pronosticarlo – emergerà del tutto assolto.
Le scelte politiche comportano però sempre dei rischi. Quella di tenersi buono il governo di Tripoli, restituendogli un criminale per proseguire negli affari, e soprattutto per tenere a bada i migranti, risulta complessa quando a reggere il Paese sono in realtà due governi, tra loro in competizione armata per interposte milizie. Siccome i migranti partono dall’intera costa libica, e non solo da quella parte controllata dalle milizie che fanno capo al governo di Tripoli, la genialata diplomatica è quella di andare a trovare il generale che controlla l’altra porzione del Paese, quel Khalifa Haftar installato a est, a Bengasi, che non è ufficialmente riconosciuto dall’Unione europea, ma con cui tutti trattano e fanno affari.
La mattina dell’8 luglio la delegazione dell’Unione, guidata dal commissario europeo alle Migrazioni, Magnus Brunner, accompagnato da Piantedosi, dal ministro dell’Interno di Malta e da quello dell’Immigrazione della Grecia, si presenta a Tripoli. Fatte le dichiarazioni e foto ufficiali di prammatica, la delegazione europea vola felicemente a Bengasi. Sorpresa: ad accoglierla sulla pista dell’aeroporto c’è buona parte del governo, guidato dal primo ministro, Osama Hamad. È la trappola tesa dall’astuto Haftar, stufo di fare affari senza essere riconosciuto, perché il protocollo prevedeva solo la sua presenza. La delegazione europea rifiuta l’incontro allargato, e così viene respinta, suscitando la facile ironia dei commenti.
Ben prima di Trump, la politica tra gli Stati si fa coi ricatti. Nel caso delle migrazioni è questa l’unica sostanza degli accordi, che vengano chiamati Piano Mattei o in altro modo. Si paga chi si ritiene che controlli un territorio – e in Libia la cosa è piuttosto complicata –, in cambio della violenza senza limiti contro i migranti. La Corte penale internazionale cerca di fare il suo mestiere; ma ci pensano Paesi come l’Italia a lasciare andare tipi come Almasri, che sui migranti ha scritto le sue più tragiche pagine criminali.
In Libia, il caso Almasri è però anche il segno della precarietà di una fragile tregua, che dura da quasi cinque anni. Negli ultimi mesi, sono aumentate le tensioni tra le milizie che operano nella Tripolitania, a seguito dell’uccisione di al-Kikli, il capo di una di queste. Nel frattempo, i migranti in partenza dalle coste libiche sono in aumento, e del resto siamo in piena estate. Ci sarà allora una nuova missione europea per cercare di porre le basi di una certa stabilità nel Paese, tanto più che le tensioni aumentano anche tra gli Stati del Mediterraneo. Alla rivalità storica tra la Grecia e la Turchia, a proposito di Cipro, si aggiunge quella tra Atene e Il Cairo per i giacimenti di gas off shore. La Russia deve trovare un’altra base dopo essere stata allontanata dalla Siria, e il caos libico costituisce una grande opportunità. Pur nella distrazione generale, la Libia è diventata un polo strategico, con cui si dovranno fare i conti a lungo.