
Ormai la diga è rotta. Dopo settimane, mesi di tentennamenti, timori di essere identificati come filoterroristi amici di Hamas, o antisemiti, dai sodali di Netanyahu in Israele e in Italia, ha preso il via una mobilitazione con proposte che dovranno costruire un grande raduno romano il prossimo 7 giugno, il giorno prima del voto referendario e dei ballottaggi alle amministrative.
Vogliamo precisare, però, che le forze di sinistra non sono state a guardare. In più di una occasione hanno organizzato delegazioni di parlamentari e militanti che si sono recati in Cisgiordania e nei pressi di Gaza per denunciare le atrocità in corso, oltre ad aver presentato in parlamento una mozione firmata da Pd, 5 Stelle e Alleanza verdi-sinistra. Ma grandi manifestazioni finora non ce ne sono state. Tra le ragioni si annovera l’aria pesante, tossica, che tira da qualche decennio a questa parte, e che ha reso Israele sempre più intoccabile, prevalentemente per ragioni di opportunità, sia da parte di una classe politica, in questo caso quasi trasversale, sia per via dei diretti interessati, ebrei o israeliani. Negli stessi ambienti di sinistra (chi scrive ebbe modo di constatarlo anche dentro l’allora quotidiano di Rifondazione, “Liberazione”, più di dieci anni fa) questo approccio è stato egemone. Perciò, una reazione adeguata a ciò che è successo e sta succedendo – in seguito alla strage del 7 ottobre per opera di Hamas, che provocò la morte di oltre mille israeliani e la cattura di decine di ostaggi – arriva solo ora, dopo una serie di proposte e dichiarazioni. A cominciare dallo scorso 22 maggio, quando – dopo avere lanciato un appello, in occasione della festa della Liberazione – la sindaca di Marzabotto, Valentina Cuppi, ex presidente del Pd, aveva proposto una marcia per la pace dal titolo “Save Gaza, fermate il governo di Israele”, che conduce una politica genocidaria nei confronti degli abitanti di Gaza. Data prevista, il 15 giugno. Una marcia che prenderà il via dalla cittadina per arrivare fino a Monte Sole, luogo della strage nazifascista del 1944, nel bolognese.
Per i partiti d’opposizione è dunque arrivato l’input che serviva. Schlein (non ci soffermiamo sugli scontati mal di pancia di pezzi del partito magari vicini ai sionisti: vedi qui), Conte, Fratoianni e Bonelli hanno lanciato una proposta per “una grande manifestazione nazionale” che ha registrato finora l’immediata adesione dell’Anpi e della Cgil, mentre la Uil mantiene una posizione più defilata, aderendo nei territori solo a macchia di leopardo. Un appuntamento che fa seguito ad altre proposte simboliche, come quella di esporre, con le bandiere palestinesi, lenzuoli bianchi per ricordare i sudari che avvolgono le migliaia di morti della Striscia, o, per fare un altro esempio, all’iniziativa messinese “Restiamo umani. Appello per Gaza”, che sta raccogliendo centinaia di firme.
Da registrare anche la grande manifestazione del 21 giugno, prevista in diverse città europee. Lo slogan che le unisce è “No Arms Europe”, organizzata in Italia da Arci, Ferma il Riarmo, Sbilanciamoci, Rete italiana Pace e disarmo, Fondazione Perugia-Assisi, Greenpeace Italia, Attac e Transform Italia, da tenersi a Roma a pochi giorni dal vertice Nato dell’Aia. Incentrata inizialmente su temi come “guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo” (incredibilmente la parola Palestina non compariva nella locandina), si è poi spostata su quanto accade in Medio Oriente, questa volta con lo slogan “fermare Israele”, divenuta così la principale parola d’ordine di un’iniziativa che, altrimenti, sarebbe stata un po’ ingombrante e poco attrattiva.
A queste proposte, concepite da forze politiche e da realtà associative, se ne sono aggiunte altre provenienti dal mondo della cultura e del giornalismo, alcune inaspettate. Il 24 maggio scorso è stato l’ex sindaco di Roma e fondatore del Pd, Walter Veltroni, a sottolineare nelle pagine del “Corriere” l’urgenza di una grande mobilitazione nazionale su Gaza. Il giorno seguente è stato Nanni Moretti, non nuovo a nette prese di posizione politiche, a denunciare su “Repubblica” i crimini di Netanyahu, e dunque a sottolineare la necessità di fare qualcosa. “Ma quanti palestinesi devono ancora morire perché tu sia soddisfatto?” – ha chiesto il regista al premier israeliano.
Le parole più sorprendenti sono state però quelle pronunciate dal direttore di “Repubblica”, Mario Orfeo. Com’è noto il giornale fondato da Eugenio Scalfari è stato diretto, fino al 6 ottobre scorso, da Maurizio Molinari, uomo legatissimo a Israele, poco incline, per usare un eufemismo, a criticare lo Stato ebraico. Più volte sfiduciato dalla redazione per altre ragioni, al suo posto è arrivato appunto il più autorevole ex direttore generale della Rai. Nel corso di un dibattito al Festival della tv a Dogliani con il direttore del Tg7 Enrico Mentana, Orfeo ha tentato invano di coinvolgere il collega nella preparazione di un’iniziativa su Gaza – da realizzare sulla falsariga di quella europeista proposta qualche mese fa da Michele Serra. Ma l’ex berlusconiano ha declinato l’offerta, non interessato a unirsi con chi vuole denunciare un massacro perpetrato dal peggiore governo della storia di Israele. La proposta, sia pure generica, ha smosso comunque le acque del giornalismo italiano. A prendere la palla al balzo, è stato proprio il comitato di redazione della testata, che ha lanciato un appello a tutti i giornalisti di “Repubblica” e alla stessa direzione. Sul quotidiano del 25 maggio, è stata pubblicata anche un’inserzione a pagamento, firmata da giornaliste e giornalisti, contro ciò che sta accadendo a Gaza. Si aggiunga l’appello delle giornaliste e dei giornalisti italiani promosso dal movimento “Giustizia e pace in Medio Oriente contro la congiura del silenzio”, reso noto da Articolo 21, che si batte per la libertà di stampa in Italia e nel mondo. E anche l’ordine dei giornalisti sta lavorando nella stessa direzione.
Insomma, nel giro di pochi giorni, molto è cambiato nei riguardi di Gaza e della Palestina. A questo punto, bisognerà capire come organizzare il tutto. I partiti e le associazioni che abbiamo citato dovrebbero dare vita a una manifestazione a Roma appunto il 7 giugno (anche Perugia era in lizza, grazie alla disponibilità della sindaca Vittoria Ferdinandi, ma il luogo è stato valutato come troppo piccolo), ed è evidente che il bis di una piazza del Popolo targata “Repubblica” potrebbe non esserci, e quel mondo della cultura e del giornalismo che abbiamo descritto potrebbe allargare l’orizzonte della manifestazione. Ciò che conta è riscattare un Paese in cui politici, opinionisti, giornalisti, per interessi di bottega o identitari, si sono finora voltati dall’altra parte di fronte a uno dei massacri più efferati, unico nella storia recente per le sue terribili modalità.