Da oltre una settimana si susseguono senza sosta notizie di violazioni dello spazio aereo di Paesi Nato, confinanti con la Russia (in primo luogo la Polonia), ma anche più lontani, come la Danimarca, da parte di droni o di aerei militari. In tutti questi casi, quasi tutti i media e i governi occidentali hanno immediatamente accusato la Russia di tali azioni; da parte loro, i dirigenti del Cremlino hanno respinto sdegnosamente tali accuse. Non è certamente facile fare chiarezza su questi avvenimenti, né gli organi di informazione aiutano molto. Non abbiamo trovato nessun particolare tentativo di verificare ulteriormente responsabili e circostanze dei fatti. I pochi che contestano tale attribuzione propongono spiegazioni alternative, sui dettagli delle quali non entriamo. I materiali a nostra disposizione sono limitati, e quindi non sembra possibile tentare di fornire un’altra interpretazione dei fatti, tranne alcune considerazioni dettate dalla semplice ragionevolezza, anzi, tanto ragionevoli da essere quasi banali. Comunque stiano le cose, le reazioni occidentali (e soprattutto quelle dei Paesi dell’Unione) suggeriscono alcune considerazioni in merito all’atteggiamento di tali Paesi (o, meglio, dei loro governi) nei confronti del conflitto in corso, considerazioni che, del resto, si potevano fare fin dal suo inizio o poco dopo.
Prima di proseguire, si può ricordare una legge della comunicazione di massa che Umberto Eco battezzò la “legge del lupo”, dalla nota favola il cui protagonista è il bambino che grida sempre “al lupo, al lupo!” per prendersi gioco degli astanti, ma che, quando viene davvero assalito da un lupo, chiede aiuto ma nessuno si muove, pensando all’ennesimo scherzo. Nel nostro caso, il lupo è la Russia. Tra i tanti casi che si possono ricordare, ne citiamo solo due: il sabotaggio al gasdotto North Stream nel Mar Baltico e i recentissimi attacchi hacker ai sistemi informatici di alcuni aeroporti europei, tra cui quello londinese di Heathrow. In entrambe le occasioni, il sospettato principale era Putin: poi si è visto che il sabotaggio del gasdotto era opera di ucraini (uno dei quali, colpito da mandato di arresto dalle autorità tedesche, è stato fermato qualche settimana fa in Italia; sugli esiti della vicenda non si è più saputo nulla); e l’attacco ai sistemi informatici era dovuto a un hacker britannico, che aveva agito con l’intenzione di ottenere un riscatto. Insomma, può darsi che tutte le violazioni dello spazio aereo di cui stiamo parlando siano state intenzionalmente provocate dai russi, ma la “legge del lupo” suscita una reazione quasi automatica, anche se forse irrazionale, di scetticismo.
Cerchiamo allora di restare il più possibile sul terreno della ragionevolezza e cominciamo a riflettere sui fatti, nei limiti delle scarse informazioni a nostra disposizione. In primo luogo, sembra opportuno distinguere il caso dei droni da quello degli aerei militari. Nel primo caso, la posizione più ragionevole è quella di parafrasare l’incipit dell’articolo di Tommaso Besozzi sulla morte di Salvatore Giuliano, pubblicato dall’“Europeo”, il 16 luglio 1950 (“di sicuro c’è solo che è morto”), in “di sicuro c’è solo che sono caduti dei droni”. Inoltre, è opportuno distinguere tra i vari tipi di incursioni: mentre, per quello che riguarda la Polonia, l’ipotesi più ragionevole sembrerebbe quella che i droni siano stati effettivamente lanciati dalla Russia, nel caso delle violazioni dello spazio aereo danese o tedesco questa tesi sembra più improbabile, in quanto i droni avrebbero dovuto compiere un itinerario troppo lungo per questo genere di velivoli.
Diverso è il discorso sugli aerei: in questo caso, infatti, è indiscutibile che fossero russi. Il problema è un altro: se violazione intenzionale ci sia effettivamente stata, oppure no; hanno cioè ragione la Polonia e gli altri Paesi Nato oppure il Cremlino? Anche in questo caso tendiamo a ritenere che la violazione ci sia stata, a parte forse il caso dello spazio aereo dell’Estonia, che avrebbe anche potuto essere casuale, data la ristrettezza del corridoio aereo che collega i cieli russi a quelli della exclave russa di Kaliningrad, attraverso il Mar Baltico. Anche ammesso, tuttavia, che la responsabilità sia stata sempre e comunque della Russia, ci si deve porre due altre domande: a che scopo la Russia l’ha fatto? E, soprattutto, episodi di questo genere si sono verificati per la prima volta in questi giorni?
Come esempio della risposta più diffusa, da parte occidentale, alla prima domanda, citiamo quella del ministro degli esteri polacco Radek Sikorski in un’intervista rilasciata al direttore di “Foreign Affairs”, pubblicata il 25 settembre: “L’abbiamo vista [l’incursione dei droni, ndr] come parte dello spettro di mezzi ibridi di Putin per testare la Nato. […] La Russia sta cercando di mettere alla prova la nostra opinione pubblica, i nostri sistemi di comando, la solidarietà dei nostri alleati”. Sikorski poi aggiunge un’altra considerazione, anch’essa formulata da molti altri: la risposta è stata pronta e immediata, ma molto costosa, in quanto per abbattere droni che costano poche migliaia di euro sono stati impiegati missili da un milione di euro l’uno. Ci sarà quindi bisogno di ristrutturare i nostri sistemi di difesa aerea. Il ministro polacco esprime comunque grande apprezzamento per la decisione e la compattezza con cui la Nato ha reagito, aggiungendo, tra l’altro, che si è trattato di “un’altra delusione per Putin, credo, perché ha aumentato il nostro senso di minaccia e quindi ci ha dato la possibilità di fare qualcosa al riguardo”.
Stando così le cose, c’è da chiedersi perché Putin dovrebbe continuare a insistere nelle sue violazioni, dato che, continuandole, non farebbe altro che rafforzare la decisione della Nato a contrastarlo con ogni mezzo, compreso l’eventuale abbattimento di aerei russi con piloti a bordo, operazione, quest’ultima, auspicata anche da Trump per la gioia delle cancellerie occidentali. In altre parole: perché la Russia dovrebbe testare una cosa che ha già testato, per di più in un modo che si è rivelato controproducente? Per non cadere nella trappola della “legge del lupo”, è da ritenere molto probabile che i droni che hanno invaso lo spazio aereo polacco siano effettivamente stati lanciati dai russi, com’è del resto indiscutibile che siano stati aerei russi a violare lo spazio aereo della Estonia e di altri Paesi, se questa violazione c’è stata (ma anche questo pare abbastanza sicuro, tranne forse il caso del corridoio del Mar Baltico). Piuttosto, si potrebbe dare una risposta differente: si è trattato, in entrambi i casi, non di prove della tenuta della Nato, ma di azioni di spionaggio aereo.
Bisogna però aggiungere che azioni di questo genere ci sono sempre state, come hanno segnalato vari esperti del settore, a partire, forse, dalla fine della seconda guerra mondiale (il caso più noto è forse quello dell’U2 americano, abbattuto dai sovietici nel 1960, perché volava sopra il loro territorio; il pilota si salvò e fu successivamente liberato in cambio di una spia russa detenuta negli Stati Uniti). Non si tratta quindi di una novità: la novità sta piuttosto nel fatto che episodi del genere hanno ricevuto un’enfasi e un rilievo, da parte dei media e dei governanti occidentali, quali non si erano mai verificati in passato. In altre parole, sembra che si sia alla ricerca di un pretesto per estendere il conflitto locale russo-ucraino a un conflitto europeo.
Il conflitto russo-ucraino, dal canto suo, è il primo momento “caldo” di una guerra fredda in atto da tempo tra la Russia di Putin e varie repubbliche dell’ex-Urss: oltre all’Ucraina, i tre Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania). Il disegno di Putin è probabilmente questo: ricostituire la vecchia Unione sovietica, se non formalmente, almeno de facto, cioè rendendo le tre repubbliche baltiche, oltre che naturalmente l’Ucraina, dei satelliti della Russia, più o meno come l’attuale Bielorussia di Lukashenko.
D’altra parte, non si può trascurare la volontà revanscista di tali Paesi, a cui si aggiunge la Polonia. Nell’intervista a Radek Sikorski di cui si è già parlato, il ministro polacco esprime molto chiaramente il sentimento nei confronti della Russia: “Gli irlandesi furono colonizzati nel diciannovesimo secolo. Anche noi polacchi fummo colonizzati nel diciannovesimo secolo, e lo furono anche gli ucraini. Quindi consideratela una guerra coloniale”. Polacchi e baltici, oltre naturalmente agli ucraini, desiderano far pagare alla Russia tutto quello che hanno subìto nel corso dei secoli, all’epoca dell’Urss e, prima ancora, nell’epoca zarista. Un’altra testimonianza, in questo senso, si può trovare in un articolo uscito sul “New York Times” dell’8 maggio scorso, a firma congiunta dei ministri delle tre repubbliche baltiche, della Repubblica ceca, della Moldavia e dell’Ucraina. In esso si può leggere, tra l’altro: “I crimini sovietici devono essere condannati in modo adeguato, compresi quelli commessi durante l’occupazione sovietica dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. L’incapacità della Russia di condannare adeguatamente lo stalinismo e di risarcire i danni causati dall’occupazione, nonché il suo generale senso di impunità, hanno portato al revanscismo e all’aggressione contro Georgia e Ucraina. Questo evidenzia l’importanza di accertare le responsabilità per gli attuali crimini commessi dalla Russia, anche dopo la futura caduta del regime di Putin”. L’eventuale caduta dell’autocrate russo non rappresenterebbe, quindi, il completo risarcimento di tutti i crimini ascrivibili alla Russia.
In questo conflitto regionale, finora ancora parzialmente freddo, i principali Paesi Ue, cioè Francia e Germania, imitati da vari altri, come l’Olanda o i Paesi scandinavi, hanno decisamente scelto una delle due parti, cioè la Polonia e le repubbliche baltiche, forse perché si trattava di stati membri della stessa Unione. A nostro parere, in questo modo si è tradita quella che, a parole, viene definita una delle missioni fondamentali dell’Unione: impedire che l’Europa conosca di nuovo gli orrori dei due conflitti mondiali. La via da scegliere era quella opposta: avviare una mediazione tra le due fazioni in lotta, cercando di risolvere il problema, tenendo presente anche il problema rappresentato dalle componenti russofone, che tuttora risiedono nei Paesi baltici e in Ucraina, le quali, anche se forse non ardono dal desiderio di ricongiungersi alla Russia di Putin, sono comunque oggetto di varie discriminazioni (si pensi alla cancellazione del russo come seconda lingua ufficiale dell’Ucraina). Dire questo non significa essere antieuropeisti, ma battersi per una Unione europea diversa, che sia coerente con l’idea di pace che è stata alla base della sua fondazione. Invece, la posizione vincente è sempre più quella rappresentata da Sikorski: “Temo più il pacifismo tedesco che il riarmo tedesco”.











