Dopo avere visto il film La voce di Hind Rajab della regista tunisina Kawthar ibn Haniyya, che ha vinto il Leone d’argento a Venezia, mi sono tornate in mente due immagini. La prima è quella del ministro israeliano Ben Gwir che incontra in carcere Marwan Barghouti. Non è una visita di cortesia. Il ministro schernisce Barghouti, è venuto a dirgli che mai e poi mai ci sarà uno Stato di Palestina. Ben Gwir è in carne e in salute, Barghouti sembra uscito da un campo di concentramento, è emaciato e col viso distrutto, e assente alle parole del suo nemico, come inebetito. Per usare un termine studiato lungamente da Giorgio Agamben, pare ridotto a “nuda vita”. Ancora Ben Gwir, pochi giorni dopo, visita un carcere palestinese e indica, soddisfatto, una fotografia di Gaza distrutta, affissa al muro perché i prigionieri, andando nel cortile della prigione, la vedano. Pare che uno dei palestinesi detenuti abbia riconosciuto la sua casa in macerie. Secondo il “Times of Israel”, Gwir ha proclamato: “Così capiscono che non si scherza con il popolo di Israele”.
Occorre ricordare queste due immagini, dovrebbero un giorno passare nei libri di storia: documentano il fatto che i palestinesi per i governanti israeliani, e per tutti coloro che in essi si riconoscono, non sono esseri umani con pari dignità, non vanno solo combattuti ma annichiliti, non devono essere solo sconfitti ma umiliati, non solo offesi ma misconosciuti fin nelle intime radici della persona e della morale. Questa non è una guerra, è un rapporto schiavo-padrone, simile a quello subito dai neri in Sudafrica o negli Stati Uniti del Sud, al tempo della segregazione razziale.
Ho qualche difficoltà a parlare in termini cinematografici di La voce di Hind Rajab. E non perché non mi sia piaciuto: mi sembra, anzi, che sia girato molto bene, con uno stile sobrio, non facile da mantenere in una tonalità non patetica, trattando di una bambina che chiede aiuto da una macchina distrutta, con i suoi parenti morti e sanguinanti accanto. È uno stile seccamente tragico, mostra l’orrore indirettamente, fuori campo, nelle reazioni e nei gesti di chi lo commenta e vorrebbe evitarlo, nella voce disperata ma incredibilmente intelligente e consapevole della bambina: e questo è probabilmente l’unico modo per parlare delle vittime rispettandone la dignità. Mi è difficile parlarne perché queste osservazioni “formali” sono comunque irrilevanti di fronte alla preponderanza e all’intollerabilità del contenuto.
Più che ad altri film, viene da confrontare La voce di Hind Rajab a una fotografia famosa, quella di Eddie Adams, in cui durante la guerra del Vietnam un ufficiale sudvietnamita uccide a sangue freddo un nemico prigioniero con un colpo di pistola alla tempia. Si dice che questa immagine è “iconica”, perché addirittura avrebbe influito sull’esito del conflitto, rivoltando le coscienze, innanzitutto quelle degli americani. Non mi pare una “bella” foto; ma in questo caso, le considerazioni estetiche non valgono niente. Quella foto fu un gesto, un urlo, una invocazione: e poco importa anche che le intenzioni del fotografo fossero lontanissime dal desiderare un simile risultato. Io penso (io spero) che La voce di Hind Rajab possa diventare qualcosa di simile e avere un analogo effetto, possa far ribellare le coscienze – degli ebrei in primo luogo – contro lo sterminio in corso a Gaza, possa servire come documento d’accusa in un processo contro gli attuali membri del governo di Israele.
Se la ricostruzione è esatta, il momento intollerabile è quello finale. Si può ancora pensare che la distruzione della macchina sia stato un errore, che i soldati possano avere pensato al rischio di un attentato, che siano stati presi dal panico. Ma, alla fine, il percorso dell’ambulanza che dovrebbe portare aiuto è stato il più possibile concordato e comunicato, eppure essa viene bombardata uccidendo i due infermieri e condannando a morire la bambina ferita. A ciò si aggiunga che la voce e le comunicazioni intercorse sono, quasi con certezza, in quel momento intercettate, note anche all’esercito israeliano; è chiaro che in quella macchina c’è solo una bambina ferita. Ed è questo che è intollerabile: perché rivela la coscienza diffusa nei soldati occupanti che, di fronte, non hanno persone umane, ma esseri inferiori da annichilire, che l’esito desiderato non è la vittoria ma l’annientamento fisico e morale, che non si ha a che fare con un nemico (giuste o sbagliate che si ritengano le sue ragioni) ma con esseri che non meritano il rispetto dei diritti umani. In un’epoca mediatica, in cui è difficile distinguere il vero dal falso, ho qualche difficoltà a usare queste parole: ma l’autenticità delle voci registrate è fuori di ogni dubbio, e la parte ricostruita del film non fa che accompagnare il dato documentario.
Chi si permette di criticare la politica del governo israeliano viene spesso accusato di antisemitismo. Credo che sia giunto il momento di finirla con questo argomento. Se un tedesco agisce da nazista, si deve giudicare il suo essere nazista, non il suo essere tedesco; se è un americano che ha sganciato le bombe su Hiroshima o su Dresda si giudicherà il suo atto, non il suo essere americano; se un ebreo si comporta da fanatico nazionalista, si criticherà il suo fanatismo non il suo essere ebreo. Questo non diminuisce, però, la responsabilità di chi tollera o addirittura si riconosce in un governo criminale, o rimane indifferente all’orrore, come coloro che abitavano vicino ai campi di concentramento e facevano finta di niente.
La responsabilità è sempre individuale: ciò non impedisce, tuttavia, di porre il problema storico dell’adesione della maggioranza di un popolo a una guerra di sterminio e della sua identificazione con dirigenti indegni. È accaduto anche a noi quando i nostri aviatori – “brava gente” – bombardavano con l’iprite i villaggi etiopi, nel 1935. Quali sono le pulsioni profonde che spingono a un simile atteggiamento? Quali traumi passano da una generazione all’altra, perpetuando una catena di colpe e vendette di sangue? Quale profonda paura di ritrovarsi vittime, spinge le vittime a diventare carnefici? Queste domande non vanno poste solo pensando agli estremismi di Hamas e di Israele, ma anche alle colpe antiche che noi, in quanto europei, abbiamo nella situazione attuale. Responsabilità certo indiretta, ma non meno grave: perché colonialismo islamofobo, antisemitismo viscerale, distruzione delle altre culture, genocidio di interi popoli, fanno parte della nostra poco nobile storia e del capitalismo che ne è l’esito nefasto. Quanto pesa il trauma della Shoah nella coscienza e nell’inconscio collettivo degli israeliani di oggi? O l’invasione coloniale subita dai palestinesi nella loro esasperazione attuale?
Restano vere le parole di Simone Weil: “Devono necessariamente perire. Poiché non considerano la propria forza come una quantità limitata, né i loro rapporti con altri come un equilibrio tra forze ineguali. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quel tempo d’arresto, da cui soltanto possono procedere i nostri sguardi verso i nostri simili, essi finiscono per credere che il destino ha concesso loro ogni licenza, e nessuna a chi è ad essi inferiore. Da questo momento, essi vanno al di là della forza di cui dispongono. Essi vanno inevitabilmente al di là, perché ignorano che essa è limitata”.
“Lo spettacolo è finito (…), gli affari prosperano sulle rovine. Le città si trasformano in cumuli di macerie, i villaggi in cimiteri, le campagne in deserti, le popolazioni in schiere di mendicanti (…); diritti dei popoli, trattati internazionali, alleanze, le parole più sacre, le autorità più alte, lacerate e calpestate (…). Svergognata, disonorata, sguazzante nel sangue, grondante di sudiciume, così ci sta dinanzi la società borghese, così è veramente”. Rosa Luxemburg scriveva queste parole a proposito della prima guerra mondiale. Una guerra di “difesa nazionale” – affermava la Luxemburg – in senso stretto non è più possibile, è un concetto ottocentesco: dietro le nazioni in lotta, sono complessi imperiali di proporzioni mondiali, che compiono guerre per procura, pronte a scendere direttamente in campo con conseguenze devastanti, quando ai loro governanti sonnambuli le scintille bruciano le mani. La guerra condotta in Paesi lontani e in invasioni coloniali può giungere al cuore dell’Europa: “Le belve feroci, che erano state scatenate dall’Europa capitalistica su tutte le altre parti del mondo, sono saltate con un balzo in mezzo all’Europa” (ancora Rosa Luxemburg).
E scrive Rilke in una lettera del 1915: “(…) Dentro c’è un abisso, si vive sull’orlo, e là in fondo, forse in frantumi, chissà, stanno le cose della vita di prima. Era questo, mi dico mille volte, era questo che negli ultimi anni gravava su di noi come un peso immane, questo futuro spaventoso, che ora è il nostro atroce presente?”. È l’animo del rimpianto, della nostalgia di un mondo ancora umano, ora sconvolto dal trauma della guerra; eppure quel mondo era falso, e al suo fondo si approfondiva il vuoto: “Messinscena umana, come già tutto, negli ultimi decenni era messinscena umana, cattivo lavoro, lavoro per il profitto” (Rilke). Kitsch e ornamento fittizio e – oggi diremmo – spettacolo e estetizzazione del dolore e dell’oppressione.
È in una profonda corrispondenza col nostro presente che queste parole acquistano per noi leggibilità. Non abbiamo le grandi parole, i fondamenti simbolici, che davano senso e orientamento alla storia, quando gli eventi ci sembravano, per quanto dolorosi e tragici, tuttavia comprensibili, interpretabili, e dunque integrabili alla nostra percezione del mondo. L’Ora che viviamo, dopo la fine dell’illusione tardonovecentesca della “vita in tempo di pace”, è di nuovo lenta erosione di un passato che diviene progressivamente invisibile, sottoposto alle forze distruttive del “lavoro per il profitto”, che rende fantasmatici i corpi, labili le menti e svuota di anima i paesaggi. Se è vero che l’epoca del declino di un mondo contiene anche possibilità inespresse, noi però stentiamo a vederne i contorni. Per cui dobbiamo trovare forme per qualcosa di più umile, che non figure di vittoria: per il resistere, scrive ancora Rilke, überstehn, in questo tramezzo di attesa, custodire le tracce e i frantumi di parole, che possano servire alla re-immaginazione di un senso: “Più non abbiamo le grandi parole di quando l’accadere era visibile. / Chi parla di vittorie? / Resistere è tutto”.
Per le precedenti “Cronache dal ‘secolo ombra’” e “Cronache dal ‘secolo ombra’ (2)”, qui e qui.












