In questi ultimi terribili anni di guerra, non possiamo dimenticare quanto la pace fosse la parola, l’idea fondamentale, di tutta la sua ultima azione e riflessione politica. Per Pietro Ingrao, come per i compagni e amici che gli stavano accanto nella sua instancabile lotta, divenne fondamentale la critica del dominio in tutte le sue forme, e la necessità di uscire dal sistema di guerra come da tutte le forme di dominio dell’uomo sull’uomo. Bisognava andare alle radici del dominio fino a criticare l’antropologia a esso sottesa, e dire che sopraffazione e legge del più forte non sono connaturati alla vita e alla convivenza umana. La guerra e l’inimicizia non devono essere pensate come radicate nell’animo umano. Pace e liberazione sono inseparabili.
Come scrissero Claudio Napoleoni e Raniero La Valle, nel 1986, nella loro Lettera ai comunisti italiani, “uscire dal sistema di guerra significa non accettare un’economia che per funzionare abbia bisogno di un alto numero di disoccupati, un mercato che pretenda di assorbire tutti i rapporti e le funzioni della vita sociale, stabilendone duramente le condizioni di esistenza e il prezzo”. Bisognava quindi allargare nella società l’area non regolata dal denaro e non dominata dal mercato. Arte, gratuità, gioco, invenzione e sentimenti dovevano permeare la società proprio in quanto fuori mercato. Questo significava stabilire, inoltre, un rapporto non conflittuale con la natura e porre con forza la questione della tecnica e delle macchine, di un apparato tecnico-scientifico che si autoriproduce, dando all’uomo un’illusione di dominio che, in realtà, diventa sempre più dominio impersonale di quell’apparato stesso.
In questo stesso ordine di idee, secondo Ingrao, il discorso sulla pace e quello sulla liberazione sono un unico discorso, perché la critica del dominio distoglie dall’illusione che l’uomo possa colmare la sua alienazione tramite il controllo della natura, dei popoli, dei territori, e attraverso l’accumulo e il consumo di merci. Il limite è liberatorio, perché arresta tale illusione e indica all’essere umano la via dell’accettazione della sua fragilità costitutiva, facendolo diventare veramente umano, capace di amore di libertà. Quest’idea di limite insegna anche che l’alienazione umana non si risolve tramite il dominio della natura da parte dei lavoratori divenuti proprietari dei mezzi di produzione. Il dominio è infatti solo un’illusione, e l’umano deve arrendersi all’impossibilità di coincidere con se stesso.
Avvertiamo così quanto povero oggi sia il discorso della geopolitica, che ha egemonizzato anche una sinistra che, pur parlando di pace, sta all’interno di una logica di contrapposizione tra blocchi di potenza, con i quali magari simpatizzare o confliggere, senza prendere parte per l’umanità tout court e per il dolore del mondo, cioè per un’idea di uomo diversa da quella dell’antropologia corrente. Dall’insegnamento di Ingrao, come da quello di tanti suoi amici nel mondo cattolico di allora, possiamo comprendere quanto la cultura pacifista del secolo scorso fosse in grado di tenere aperti i grandi temi del destino dell’umano, della sua costituzione antropologica, della sua liberazione a partire dall’idea di limite e critica del dominio. Siamo di fronte a una profondità politico-filosofica che va oltre il ristretto e cinico discorso oggi dominante della geopolitica, che sta riducendo al silenzio un pacifismo che non riesce più ad avere voce come critica del dominio.
Inoltre, già negli anni Settanta, Ingrao aveva individuato l’inizio della crisi dei “trent’anni gloriosi”, di quel compromesso tra capitale e lavoro che aveva caratterizzato l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Gli fu dunque facile dire, nell’Ottantanove, che il problema per le sinistre in genere, e per il Pci in particolare, non era quello di recuperare una radice socialdemocratica dopo la fine dell’Unione sovietica. Era proprio il compromesso socialdemocratico dei “gloriosi trenta” a essere entrato in crisi, e l’opera di rinnovamento non aveva a che fare con abiure e facili ritorni al socialismo democratico, ma con l’interrogazione critica del capitale, della sua pervasività nella vita di milioni di uomini e donne, con lo studio per pensare un altro modello di società, di sviluppo, di rapporto fra uomini e donne, tra uomo e natura. Il suo assillo fu l’orizzonte del comunismo, una visione tragica, in cui la società più giusta e più umana poteva sempre essere pensata ma mai realizzata compiutamente nella contingenza storica. In quello scarto stava la democrazia, lo spazio della politica, la bellezza dell’elaborazione collettiva, popolare e solidale, di quello stesso scarto per renderlo praticabile e anche gioiosamente partecipabile.
Chi oggi immagina di tornare al compromesso tra capitale e lavoro, nel pieno dell’egemonia neoliberale – egemonia intesa come set di valori che ispirano la vita e rendono ancora più pervasiva la forza del capitale –, non ha capito la grande lezione di Pietro Ingrao, cerca scorciatoie impossibili dove invece ci vorrebbe l’assillo dello studio, e si dedica a parole d’ordine e appelli sgrammaticati, dove invece sarebbe necessaria la paziente elaborazione di una strategia politica e culturale. Ingrao non era fuori dal tempo, come spesso i suoi avversari – interni al partito e fuori – lo dipingevano. Fu invece lungimirante e profetico. Vide la crisi arrivare molto prima di altri, e il suo lavoro teorico, soprattutto alla direzione del Centro per la riforma dello Stato, lo sta a dimostrare, assieme a quello di tanti e tante compagne che con lui lavorarono in quegli anni.
E non era affatto un sognatore o un “acchiappanuvole” (parola che ripeteva egli stesso in modo autoironico). Era segnato dall’assillo per il destino della sua parte nel momento in cui un determinato mondo stava per finire per sempre. Era impegnato in una ricerca, sapendo che cambiare nome per accedere al governo del Paese non avrebbe risolto le questioni fondamentali: come ripensare una nuova forma di critica del capitale e nuove istituzioni, nel momento di massimo potere del capitalismo neoliberale e di crisi della democrazia?
Ora che proprio quei nodi vengono al pettine, si dovrebbe riprendere quella stessa tensione che si leggeva sul volto di Pietro, in quei tratti somatici segnati dal pensiero, dalla riflessione. Il punto di attacco per la sinistra sta in quei nodi che Ingrao aveva già individuato, negli anni Settanta e Ottanta, e non certo nel sogno di improbabili sovranità nazionali da recuperare, facendo appello al popolo per un ritorno al passato, cioè a quel compromesso tra capitale e lavoro oggi impossibile. A proposito di “popolo”, negli anni Novanta, sulla scorta dell’insegnamento di Ingrao, molti paventarono come uno dei problemi fondamentali del futuro l’impoverimento dei ceti medi, e la loro conseguente paura, che li avrebbe spostati a destra una volta consumati i margini delle politiche riformiste e di ridistribuzione della ricchezza. E avevano visto giusto anche lì.










