
Resiste il comune di Taranto, per il momento. Il rigassificatore all’imbocco del porto è inaccettabile. Nonostante i tentativi di moral suasion del governo, dei partiti, dei sindacati, terrorizzati dalla concreta possibilità di una emorragia di posti di lavoro, conviene ancora riflettere, prendere tempo, trovare altre soluzioni. E dunque la decisone sulle sorti dell’ex Ilva sarà presa il prossimo 31 luglio, visto che nel tavolo interministeriale, che si è svolto lunedì scorso al ministero delle Imprese e del Made in Italy, sono emerse posizioni diverse.
In queste ore, la Conferenza dei servizi approverà la nuova Autorizzazione d’impatto ambientale (Aia) che prevede poco meno di cinquecento prescrizioni che l’acciaieria dovrà rispettare. Solo un accenno alla decarbonizzazione che verrà (in una forma non prescrittiva e quindi senza sanzioni): “Entro un anno – recita l’articolo 3 della nuova Aia – dovrà stabilirsi il cronoprogramma per la decarbonizzazione degli impianti”. Mentre, lunedì prossimo, il Comitato tecnico per l’approvvigionamento dovrà stabilire quanto gas si potrà dirottare sulla ex Ilva per soddisfare il suo fabbisogno energetico, mettendo insieme il gas di Tampa Rossa (Basilicata), il gasdotto azero, che sbuca a Mesagne, e quant’altro potrà garantire la rete nazionale della Snam-Eni. I numeri dicono che per alimentare tre forni elettrici, tre impianti di “preridotto”, servono cinque miliardi di metri cubi di gas. Quelli disponibili a oggi sono circa la metà di quanto necessario. E allora bisogna aspettare il vertice tecnico di lunedì per avere i numeri reali del gas disponibile.
A oggi, senza il gassificatore, gli impianti di “preridotto”, vanno costruiti altrove (a Gioia Tauro?). Numeri che gli ambientalisti contestano: “Per alimentare tre forni elettrici da due milioni di tonnellate di acciaio all’anno ciascuno, utilizzando solo elettricità prodotta da una centrale a gas, servono circa seicento milioni di metri cubi di gas all’anno, non 2,5 miliardi”.
Siamo a questo punto della vicenda ex Ilva. Davvero ancora non è chiara la fine di questa storia. La partita che si sta giocando è molto importante, perché riguarda la vita e la morte di una comunità di lavoratori e la sopravvivenza di una città avvelenata dalla fabbrica. È vero che le questioni produttive hanno un ruolo decisivo. In gioco c’è l’interesse strategico nazionale: avere un polo produttivo siderurgico in grado di soddisfare la domanda di acciaio (oggi importiamo due terzi di laminati rispetto a quanti ce ne servono). E dunque la discussione e le divisioni che attraversano il mondo della politica, delle istituzioni e dei sindacati, apparentemente, riguardano la chiusura dell’area a caldo, la costruzione di forni elettrici, della “materia prima” (o “preridotto”) per produrre acciaio green. E del gas necessario come l’ossigeno per la nuova ex Ilva. Ma c’è un altro terribile problema che si continua a far finta che non esista: quello del costo sociale della trasformazione della fabbrica, che produceva acciaio e veleni, in un’attività produttiva non “ostile” nei confronti dei lavoratori e dei cittadini.
Nella riunione di lunedì scorso a Roma, i sindacati hanno presentato una ricerca sui “costi sociali” della decarbonizzazione dell’ex Ilva. Chiudendo l’area a caldo, che attualmente occupa quasi cinquemila lavoratori, con i nuovi forni elettrici e gli impianti di “preridotto” serviranno 2300-2500 lavoratori. Nei documenti ufficiosi, nelle discussioni informali, il governo non è in grado di garantire un new deal produttivo, di risanamento ambientale, e insieme una terapia d’urto sanitaria.
Gli ambientalisti tarantini chiedono al governo, agli attori istituzionali e sindacali coinvolti nella vertenza ex Ilva, di prendere tempo, di non approvare la nuova Aia. Di arricchire la “valutazione dell’impatto sanitario”, che non tiene conto del fatto che, secondo i dati Inail, la provincia di Taranto è prima per patologie tumorali professionali (107 casi in diciotto mesi). E mancano i dati aggiornati sulle cause della mortalità in provincia di Taranto.
Il dilemma che dovranno affrontare sindacati, istituzioni locali, governo e Regione, lo ha ricordato, lunedì sera, al termine del vertice di Roma che non ha deciso nulla, il presidente della Puglia, Michele Emiliano: “Per il governo gli altiforni saranno accesi ancora per sette, otto anni. Questo Taranto non può sopportarlo, e la decisione scatenerebbe la furia popolare. Ma chiudere subito le fonti inquinanti significa la morte della ex Ilva. È una vicenda drammatica, lasciata marcire per anni e anni”.