
Fino a poco tempo fa era solo un incubo, un cattivo pensiero da scacciare subito. Ma adesso, da quando, la settimana scorsa, lo ha detto lo stesso ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, la prospettiva della chiusura traumatica di quella che fu la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa, l’ex Ilva di Taranto, è più di una semplice suggestione, è una possibilità. Ma come? Non era il tempo della “transizione ecologica”, della “decarbonizzazione”? Degli impianti di “preridotto” che alimenteranno i futuri forni elettrici? Della chiusura, cioè, degli altiforni alimentati con il carbone e i minerali che inquinano irrimediabilmente il territorio?
Tutto questo, all’improvviso, è sparito, sostituito dall’incubo della chiusura definitiva degli impianti. In attesa degli sviluppi della vertenza – per quella che è diventata la “sopravvivenza” di Taranto –, registriamo dei “sospetti” sussurrati nei corridoi della politica. Per dirla chiaramente: l’allarme di Urso è un ricatto o un gioco a scaricabarile?
Riavvolgiamo il nastro degli avvenimenti fino al 7 maggio scorso. Fino ad allora si discuteva della cessione della gestione degli impianti ex Ilva alla società azera “Baku Steel”. Una società che, pur non avendo una “vocazione” fondamentalmente siderurgica, aveva superato le altre società che avevano presentato le loro offerte nella gara per l’aggiudicazione della cessione degli impianti. Scriveva il 20 marzo scorso “Milano Finanza”: “Sicuramente l’offerta di un miliardo di euro, affiancata dalla promessa di quattro miliardi di investimenti in cinque anni, ha fatto la parte da leone nella proposta degli azeri”. Ma soprattutto l’asso nella manica che aveva portato alla scelta della cordata azera era il gas: “‘Baku Steel’ potrebbe avere in programma di investire in un nuovo rigassificatore da posizionare al largo del golfo di Taranto”.
Dunque la situazione è precipitata il 7 maggio scorso, quando un incendio ha bloccato l’altoforno uno. Dei quattro esistenti a Taranto, oggi solo uno è in funzione. In questi due mesi, si è aperto il baratro. I finanziamenti stabiliti per la transizione ecologica e per la decarbonizzazione, intanto, erano stati dirottati ad altre voci di bilancio. Di fronte ai mugugni sulla possibilità di un rigassificatore a Taranto – mugugni alimentati anche dall’orientamento del governo di allungare al 2039 i tempi per la decarbonizzazione – le istituzioni locali hanno cominciato a dare segnali di insofferenza, di presa di distanza da questa prospettiva. Insomma, non si fidano del governo e delle prospettive industriali. Anche gli azeri, da parte loro, si sono irrigiditi, in attesa di vedere gli sviluppi della situazione. La vera cartina di tornasole, per il gruppo industriale straniero, ma anche per le istituzioni locali e le parti sociali, è la nuova Autorizzazione d’impatto ambientale (Aia). Ovvero le prescrizioni che dovranno essere attuate per la ripresa dell’attività del centro siderurgico. A rendere “tossico” il clima – per dirla con un delegato sindacale – è la mannaia del tribunale di Milano, che pende sulla sopravvivenza degli impianti.
Lo ha detto chiaramente il ministro Urso, quando ha lanciato l’allarme della chiusura dell’ex Ilva in assenza della nuova Aia. E questa decisione potrebbe essere annunciata nelle prossime settimane. Insomma, entro luglio (e la temono anche i sindacati e gli esponenti politici). Questo è lo scandalo: scaricare sulla magistratura milanese la responsabilità di una chiusura degli impianti, per rispettare una sentenza della Corte di giustizia europea.
Il governo è responsabile del fallimento della politica, che ancora una volta gioca a chi deve spegnere per ultimo il cerino. Ancora una volta, è la magistratura a sopperire alla latitanza del parlamento. Quella stessa magistratura che lanciò l’allarme, nel 2012, sequestrando gli impianti tarantini per disastro ambientale. In tredici anni, invece di costruire un futuro ecocompatibile per l’ex Ilva, non si è fatto nulla. E la situazione è precipitata.
E se l’ultimatum del ministro Urso fosse solo un gioco allo scaricabarile? Urso, venerdì scorso, ha pubblicamente annunciato che “senza l’accordo di programma interistituzionale” che dovrà portare alla approvazione della nuova Autorizzazione d’impatto ambientale (Aia), “l’ex Ilva chiude a luglio”. Il gioco a scaricabarile è esattamente questo: le istituzioni locali devono accettare a scatola chiusa la nuova Aia. Spiega Ubaldo Pagano, parlamentare tarantino del Pd: “Come si può accettare un Accordo di programma che non preveda sanzioni in caso di non rispetto degli impegni sottoscritti? Visto quello che non è successo in questi tredici anni, come ci si può fidare? Cosa devono pensare gli abitanti del quartiere Tamburi, che confina con lo stabilimento siderurgico, se il risanamento urbano del quartiere non è stato finanziato?”.
Una possibile via d’uscita potrebbe essere la nazionalizzazione dell’ex Ilva. Senza i “privati” le istituzioni locali si sentirebbero più garantite, e potrebbero approvare l’Accordo di programma e l’Aia.
In queste ore, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, sta tentando di ristabilire un circuito di comunicazione virtuosa tra i vari attori della vertenza, dal governo alle istituzioni locali. Il paradosso è che la chiusura della fabbrica aggraverebbe ancora di più il disastro ambientale di Taranto.
Il 20 ottobre 1990, dopo l’ultima colata, a Napoli venne spenta l’area a caldo degli impianti siderurgici dell’Italsider di Bagnoli. Ancora oggi non sono stati bonificati i due milioni di metri quadrati dello stabilimento. Quanti secoli dovranno passare per rendere ecocompatibili i quindici milioni di metri quadrati dell’ex Ilva di Taranto. E a quale prezzo? Insomma, Taranto è con le spalle al muro, senza un’apparente via d’uscita. Siamo all’epilogo di una tormentata vicenda sociale, industriale e politica – come temono le stesse organizzazioni sociali, che denunciano il rischio imminente dell’esplosione di “una bomba sociale”?