
“Celle come tombe, clima insopportabile”: così un anno fa il garante regionale per i detenuti, Doriano Saracino, aveva denunciato le condizioni del carcere di Marassi a Genova, dove ieri (4 giugno) è scoppiata una rivolta poi rapidamente rientrata. Marassi ospita 684 detenuti rispetto a una capienza massima di 550 posti; 317 persone sono in attesa di giudizio definitivo, e la loro custodia in carcere è cautelare. Il tasso di sovraffollamento è del 130%. Da mesi, a Marassi, si sono succeduti episodi di violenza, pestaggi, stupri, in un clima arroventato dall’affollamento cronico delle celle.
Il 2024 è stato anche l’anno record per il numero dei suicidi, ben quattro. L’ultimo, nel marzo scorso, quello di un detenuto settantenne. La situazione è stata frequentemente denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria, che sottolineano lo scarso numero di operatori a fronte di una situazione sempre più difficile. E ieri, dopo l’ennesima violenza, questa volta ai danni di un giovanissimo carcerato diciottenne, è scoppiata una rivolta: gruppi contrapposti di detenuti si sono fronteggiati, distruggendo una delle sezioni e fuoriuscendo dal carcere, una parte sui tetti e l’altra nei pressi del muro di cinta. La prigione, che sorge poco lontano dallo stadio, in un quartiere popolare, è stata immediatamente circondata da un nutritissimo schieramento di polizia in tenuta antisommossa: le strade di accesso al quartiere sono state bloccate per diverse ore. Gli agenti sono poi intervenuti e ci sono stati un paio di feriti leggeri.
Quanto avvenuto a Genova non è un episodio isolato, ma il frutto di anni di trascuratezza e di abbandono della struttura: un sovraffollamento divenuto condizione “normale”, personale allo stremo, servizi sanitari ridotti al minimo. Marassi è oggi un luogo di disperazione, nonostante i tentativi fatti in passato di introdurre dei momenti di recupero, quando, per esempio, un coraggioso regista recentemente scomparso, Sandro Baldacci, vi aveva creato un teatro in legno, il primo costruito all’interno di un carcere, opera ingegnosa e unica in Europa, il “Teatro dell’Arca”.
Per ironia della sorte, la rivolta esplode proprio mentre a Roma si approva il “decreto Sicurezza”, che contempla appunto l’inedito reato di “sommossa in carcere”, quasi a confermare che la gravità della situazione – in cui versa non solo Marassi, ma tutto il sistema carcerario italiano – è ben nota anche al governo, che pensa di cavarsela usando la maniera forte per gestire situazioni ormai ingestibili. Non rafforzando i servizi, non migliorando le condizioni di chi vive o lavora in carcere, non investendo sulla prevenzione, ma affidandosi unicamente alla repressione di un malessere insostenibile. Un provvedimento di legge che arriva al punto di considerare punibile anche chi si limita a resistere in modo non violento, per esempio rifiutandosi di rientrare in cella. Si vuole così silenziare ogni forma di protesta, punendo chi reagisce a condizioni di detenzione inumane ed estreme.
D’altro canto, tutto l’impianto del “decreto Sicurezza” mostra il medesimo intento: governare mediante la costrizione e la paura situazioni che non si è in grado di governare costruendo diritti e creando condizioni di vita migliori. Nelle carceri, questo equivarrebbe a investire sul personale, sulla salute, sul reinserimento, sulle misure alternative.
L’ex sindaco Marco Bucci, ora presidente della Regione, ha dichiarato che si tratta di “un fatto senza precedenti”, e ha approfittato dell’evento per rilanciare l’idea di spostare il carcere di Marassi in un luogo diverso, un’idea che circola da anni, e aveva anche trovato un’ipotesi di realizzazione in un’area remota e decentrata, in una zona di industrie dismesse, nella periferia estrema, a Coronata. Luogo peraltro difficile da raggiungere, che, se divenisse sede di una nuova struttura detentiva, non solo interromperebbe un rapporto storico tra carcere e città, ma penalizzerebbe non poco i familiari dei detenuti. “Il nuovo carcere, se mai verrà realizzato, si troverà in un’area totalmente decentrata e priva di collegamenti efficienti con il resto della città”, ha spiegato ancora il garante regionale Saracino.
Quanto avvenuto a Marassi, dovrebbe indurre a una riflessione non solo sulla crisi del sistema carcerario del Paese, divenuto una sorta di discarica sociale, ma intorno a una serie di questioni in passato oggetto di dibattito, e di cui da qualche tempo non si parla più: le carceri possono davvero essere modernizzate? L’istituzione carceraria è veramente essenziale? La reclusione è un mezzo di punizione appropriato? Da dove viene la legittimità e il potere di punire privando della libertà fisica?
Non si tratta di astrazioni filosofiche o di una discussione circoscritta ai criminologi di sinistra. Le prigioni non funzionano, gli obiettivi della carcerazione – cioè la considerazione degli interessi delle vittime di reati, la garanzia della sicurezza pubblica e la riabilitazione delle persone colpite – non vengono in genere raggiunti dalle strutture attuali, e potrebbero essere più efficacemente realizzati in un mondo con molte meno carceri e mediante l’introduzione di strutture e misure alternative, come si è a lungo provato a fare nei Paesi dell’Europa del Nord. Le prigioni oggi non riescono a realizzare la loro missione di riabilitare i detenuti e di ridurre la criminalità. Al contrario, generano violenza e alti tassi di recidiva. Il loro effetto deterrente è anche molto inferiore a quanto si pensi. La reclusione è eccessivamente punitiva, viola la dignità dei detenuti, perché non solo li priva della libertà, ma li sottopone a un regime istituzionale di vasta portata limitandone i diritti umani. Le persone sono costrette al lavoro, alla povertà e all’astinenza relazionale e affettiva; anche terze parti estranee, come i familiari, ne pagano le conseguenze e vengono indirettamente punite.
Certo, se subito dopo i fatti di Genova si scorrono i social media, si rimane inorriditi dalle reazioni, per lo più all’opposto delle considerazioni appena svolte. L’opinione pubblica che si esprime nei social è forcaiola, ha una idea medievale del sistema carcerario, fondata su un’idea di pena afflittiva, se non addirittura ferma al concetto etico-giuridico del “taglione”, all’idea di espiatio, del carcere come forma di vendetta mirata a riparare i danni causati da un reato. Una società civile arretrata e spaventata, che cerca rassicurazioni nella privazione della libertà altrui.
Non stupisce, allora, che l’Italia abbia subìto, in tempi recenti, una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani per la violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), in connessione con il fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Quella che, per oltre quarant’anni, è stata la proposta di un’istituzione carceraria innovativa, focalizzata sull’individuo in regime di detenzione quale persona meritevole di riscatto sociale, sembra cancellata dalla memoria collettiva e dal dibattito politico. La prigione torna a essere un luogo fatto di violenza fisica e psicologica, preferibilmente sottratto agli occhi del grande pubblico, che, nel disinteresse generale, abbandona al loro destino le categorie più a rischio e indifese della società.