
La recente vittoria riportata a Genova da Silvia Salis, la candidata sindaca del centrosinistra o campo largo che dir si voglia, non può certo essere considerata una svolta definitiva per la politica nazionale, né un modello applicabile dappertutto per le forze coinvolte, come ha ben argomentato Agostino Petrillo (vedi qui). Genova per noi – cantava Paolo Conte – è un’idea come un’altra. Forse però, per Giorgia Meloni, adesso più che un’idea, è una preoccupazione da non trascurare, dopo la sconfitta incassata dalla sua coalizione nella più importante fra le città al voto in questa tornata. Anche se i sondaggi, a livello nazionale, rimangono rassicuranti soprattutto per la presidente del Consiglio e per Fratelli d’Italia, sarebbe un errore immaginarla distratta dalle passerelle internazionali (la più recente in Asia centrale) o pacifica spettatrice del cammino alquanto agevole dei provvedimenti governativi, trascinati al traguardo in parlamento a botte di decreti legge e voti di fiducia a raffica. Meloni ha un progetto di largo respiro in mente per sopravvivere politicamente alla diciannovesima legislatura, e il pur limitato risultato elettorale di Genova non potrà che spingerla ad approfondirne i contenuti.
Le riforme istituzionali, infatti, non bastano a stabilizzare il potere delle destre di governo: la “legislatura costituente” (vedi qui su “terzogiornale”, giusto un anno fa) non può limitarsi al premierato, che finora è andato a rilento, all’autonomia differenziata, rilanciata dal ministro Calderoli con il ddl Lep dopo la sforbiciata della Corte costituzionale, e alla giustizia, recentemente ridiventata centrale con l’accelerazione al Senato sulla separazione delle carriere dei magistrati, ma in realtà settore sotto assedio attraverso interventi legislativi plurimi.
L’opera non sarebbe completa senza ridefinire gli equilibri tra le forze politiche, per minimizzare il rischio che non tutti gli elettori si lascino persuadere dall’entusiasmo televisivo a reti unificate (o quasi) e dalla benevolenza stampata a editoriali unificati (o quasi) per l’avventura del governo Meloni. Due le direttrici di intervento alle quali lavora la coalizione di destra-centro che governa gli italiani da palazzo Chigi e da quattordici fra Regioni e Province autonome su ventuno. La prima è la legge elettorale nazionale: recentemente è toccato al segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, spiegare ai suoi i piani della presidente del Consiglio, per ora non ufficializzati pubblicamente, per sostituire l’attuale sistema misto, il “Rosatellum”. La seconda, invece, ha già una sua formalizzazione: è il disegno di legge depositato lo scorso aprile (non da qualche senatore di seconda o terza fila, ma dai capigruppo parlamentari delle destre al Senato, quindi con tutto il peso dell’ufficialità) per cancellare quasi del tutto il doppio turno nei comuni sopra i quindicimila abitanti.
Partiamo da quest’ultima proposta, doppiamente significativa. Nel metodo, perché va a scardinare una legge che ha sostanzialmente funzionato per oltre trent’anni, suscitando un apprezzamento che è andato certamente oltre i confini del ceto politico e anche qualche critica, ma solo da chi ne denuncia la deriva, per così dire, caudillista. Nel merito, perché dimostra l’ampiezza degli obiettivi meloniani: sono cinquantanove le città governate dal centrosinistra, con la coalizione avversa che, a dispetto della sua egemonia nazionale, non arriva a quaranta. L’individuazione dei ballottaggi come lo strumento attraverso cui le differenze politiche fra le forze del variegato centrosinistra vengono spesso superate con successo (magari grazie all’appello al voto contro le destre) ne fa un bersaglio da abbattere a tutti i costi. Con la proposta Malan-Gasparri-Romeo-Biancofiore messa nero su bianco a palazzo Madama, al candidato sindaco basterebbe ottenere il 40%, invece che il 50 più uno, per vincere; e, per garantire al fortunato un confronto non troppo tormentato con il pluralismo politico, il testo del disegno di legge prevede che, alle liste che lo sostengono, venga assegnato automaticamente il 60% dei seggi “sempreché nessun’altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50% dei voti validi”. Il secondo turno avrebbe luogo solo nel caso in cui nessun candidato superi il 40% dei voti validi, di fatto solo in una situazione con tre o più coalizioni in equilibrio fra loro.
Sistemata la questione delle città, resta da portare all’incasso il vantaggio competitivo della storica maggiore compattezza dell’alleanza fondata, più di trent’anni fa, da Silvio Berlusconi. Per farlo, la presidente del Consiglio pare abbia scelto di ispirarsi al modello delle elezioni regionali: via i collegi uninominali, legge proporzionale con premio di maggioranza che scatta al raggiungimento del 40% da parte di una coalizione, indicazione obbligatoria del candidato premier sulla scheda. Per ora, la proposta formale non c’è, le indicazioni sono state fatte ampiamente circolare sotto forma di voci nei corridoi parlamentari. Sono voci, però, semiufficiali, al punto che Antonio Tajani ne ha dato conto in una recente riunione degli azzurri, spiegando appunto ai suoi quali siano le intenzioni di Giorgia Meloni.
Se nella riforma della legge elettorale per le città l’obiettivo condiviso delle forze di destra appare la sterilizzazione del pericolo di “convergenza” al secondo turno dell’elettorato progressista, in questo caso i bersagli potrebbero essere meno condivisi a destra, e gli obiettivi essere patrimonio esclusivo di Fratelli d’Italia. È vero, infatti, che l’abolizione dei collegi depotenzia, soprattutto nel Mezzogiorno, il rischio di un riequilibrio dei seggi in parlamento grazie agli accordi possibili fra Pd e 5 Stelle, che, nel 2022, si sono presentati separati in virtù della “pregiudiziale Draghi” sbandierata dall’allora segretario democratico Enrico Letta. E l’obbligo dell’indicazione preventiva del nome del premier (“in coerenza con la riforma del premierato”, dicono i fedelissimi della leader) serve ad alimentare i conflitti nel centrosinistra, fra Elly Schlein e Giuseppe Conte, ma anche fra Schlein e la fronda interna al Pd, mai realmente rassegnata ad affidarle la guida della coalizione e di un molto ipotetico futuro governo. Un colpo, quindi, agli avversari.
Ma Meloni, in alcune zone del Paese – e lo si vede dalle scaramucce con Matteo Salvini sul terzo mandato e le regioni del Nord-est –, deve fare i conti con il radicamento territoriale degli alleati: la Lega a Nord, Forza Italia in alcune aree meridionali. L’esistenza dei collegi – che premia questo radicamento e le personalità locali più in vista – è un punto di forza proprio di leghisti e azzurri nei negoziati interni alla coalizione sulle candidature in parlamento. Aboliti quelli, resta la forza, per ora schiacciante, del partito di maggioranza relativa. Se l’idea è di andare oltre la fiammata della legislatura in corso, se l’ambizione è quella di inaugurare l’Era Meloni, la riforma elettorale è una tappa fondamentale. Ne sentiremo parlare ancora per molto tempo.