E adesso? Dopo la notizia a sorpresa (che poi era prevedibile) dell’addio di Carlos Tavares dalla guida di Stellantis, tutti si chiedono che succederà e se il governo Meloni sarà in grado di affrontare una crisi gigantesca di tutto il comparto dell’automotive, un terremoto che ha certamente una dimensione europea (basti pensare alla Volkswagen), ma che in Italia avrà ricadute pesantissime. Il gruppo Stellantis rappresenta infatti il quarto gruppo automotive al mondo, e nel nostro Paese occupa circa 86mila lavoratori (tra dipendenti ex Fca e Cnh). Alcuni osservatori propongono cifre ancora più pesanti. Calcolando tutti gli occupati nel settore (non solo Stellantis), si arriverebbe a una cifra di 167mila persone, che con l’indotto sarebbero superiori al milione.
La presidente del Consiglio, dopo mesi di silenzio totale e di disinteresse del suo governo per i destini dell’industria automobilistica e dell’industria in generale, ora scende in campo vestendo i panni della sindacalista. “Difenderemo tutti i posti di lavoro diretti e dell’indotto”, dice, mentre si affretta a ordinare la cancellazione del tricolore sulle auto Stellantis prodotte fuori dall’Italia. Meloni, nel suo stile migliore, sfrutta la situazione per rigirare la frittata accusando le opposizioni e il sindacato (in particolare la Cgil) di essere stati troppo morbidi con il management Stellantis. Cerca cioè di portare l’acqua al suo mulino, riproducendo antichi schemi di rapporto tra governo e industria dell’auto, come ai tempi di Gianni Agnelli. Per questo si è aperto il contatto con John Elkann, che pare sia diventato subito un filo diretto.
Il bersaglio è diventato quindi Tavares, colpevole di aver rifiutato di aprire il dialogo (finto) con il governo, e soprattutto di avere cercato di perorare la causa del motore elettrico contro la posizione ufficiale di Roma, che chiede a Bruxelles di spostare molto in avanti la data di scadenza del motore a scoppio, per ora fissata nel 2035, anno in cui dovrebbe essere vietata la commercializzazione di tutti i veicoli a propulsione endotermica. Per palazzo Chigi l’uscita di scena di Tavares è quindi una vera manna. Ora si può giocare senza freni la partita contro il Green Deal.
Con questo non vogliamo certo difendere Tavares. Se la politica è scandalosa per il suo opportunismo, la vicenda dell’amministratore delegato miliardario dimostra la crisi definitiva di un modello di governance dell’impresa basato sulle scommesse speculative e sulla remunerazione di un unico soggetto: l’azionista. Quella “irresponsabilità d’impresa” di cui parlava Luciano Gallino. E oggi la situazione è peggiorata: non si pensa che ai grandi fondi finanziari, oltre ai piccoli risparmiatori e agli stessi lavoratori che si vorrebbero coinvolgere nelle sorti delle imprese, facendogli acquistare azioni (Stellantis ha lanciato una campagna a ottobre).
Scandalosa – ma su questo diciamo cose ovvie, che è riuscito a pensare perfino Salvini – la cifra della superliquidazione da cento milioni per Tavares. I sindacati francesi hanno lanciato l’allarme, anche se l’entità reale del bottino sarà svelata solo all’assemblea dei soci dell’anno prossimo. Si parla comunque di decine di milioni: Tavares è stato il manager più pagato del settore. Stando alla relazione annuale 2023, l’anno scorso la sua retribuzione è stata di circa 13,5 milioni di euro a cui si aggiungono una serie di incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi fino a un massimo di 23,5 milioni.
Ma se Salvini e soci si scandalizzano per la superliquidazione, ovviamente non dicono niente sul baratro delle retribuzioni in fabbrica. Le differenze tra il salario degli operai e quello dei quadri e soprattutto dei supermanager è ormai abissale. Milena Gabanelli ha ricordato di recente la frase di Adriano Olivetti, secondo il quale nessun dirigente, neanche il più alto in grado, dovrebbe guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso. Negli anni Cinquanta l’amministratore delegato della Fiat, Vittorio Valletta, guadagnava dodici volte il salario di un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne a Fca, nel 2017, fu di 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. Con Stellantis, nel 2021, Carlos Tavares ha percepito 19,10 milioni di euro, prendendo più del doppio di Herbert Diess, capo del gruppo Volkswagen (circa otto milioni di euro), e il quadruplo di Oliver Zipse di Bmw (5,3 milioni) e di Ola Källenius di Mercedes-Benz (5,9 milioni). Ha guadagnato 758 volte il salario di un operario metalmeccanico.
E in cambio cosa ha dato Tavares? Tagli, tagli, tagli. Nell’agosto scorso erano stati annunciati 2.500 licenziamenti, mentre le ore di cassa integrazione sono esplose in tutti gli stabilimenti italiani. Ma non si è trattato solo di tagli al “personale”. Sono stati tagliati anche gli investimenti. Mentre si blaterava nei convegni sui motori elettrici, gli unici al mondo a prendere sul serio la partita (già da dieci o quindici anni) sono stati i cinesi. Ma l’ipocrisia non è stata appannaggio solo dei supermanager. Il governo Meloni, per esempio, con la manovra 2025, ha tagliato 4,6 miliardi per l’automotive, risorse destinate ad altro. Al welfare? No, alla produzione di armi.