Il Bangladesh è la plastica dimostrazione della capacità degli esseri umani di vivere in aree inospitali. In questo relativamente piccolo Paese dell’Asia meridionale (circa 147.570 km2) ci sono oltre 173 milioni di persone, in maggioranza musulmane, delle quali il 36 % è in condizioni di estrema povertà, in un’area problematicamente sviluppatasi in buona parte sul delta di tre grandi fiumi – il Gange, il Bramahputra e il Meghna – che spesso provocano alluvioni devastanti. Il tutto, fin dall’indipendenza dal Pakistan conseguita nel 1971, in un regime sulla carta democratico – il Paese è una repubblica parlamentare e il presidente è ora il giurista Mohammed Shahabuddin Chuppuma –, ma che ha conosciuto periodi particolarmente sanguinosi che sembrano non voler terminare. Con queste premesse, basta uno spunto per far scoppiare delle proteste. Com’è successo negli scorsi mesi, quando gli studenti del movimento Students Against Discrimination, capeggiato da Nahid Islam, uno dei coordinatori delle manifestazioni, sisono rivoltati contro il governo della premier Sheikh Hasina (già alla testa dell’opposizione, dal 1986 al 1990 e dal 1991 al 1995, quando al governo c’era il Partito nazionale), leader della Lega popolare bengalese, Awami.
La premier era in carica dal 10 gennaio 2009, complessivamente quattro mandati che diventano cinque, se consideriamo anche quello che va dal 1996 al 2001. Figlia del primo presidente e padre fondatore del Bangladesh, Sheikh Mujibur Rahman, l’ex presidente del Consiglio era considerata una delle donne più potenti del mondo, arrivata al governo del Paese succedendo a Fakhruddin Ahmed, premier a sua volta, dal 2007, alla testa di un governo tecnico dopo la crisi economica del 2006.
La rivolta è scoppiata a seguito di una decisione presa il 6 giugno dalla Corte suprema: quella di reintrodurre il sistema di quote di lavori governativi nella misura del 30% a favore dei discendenti dei freedom fighters, ovvero di coloro che, nel 1971, avevano combattuto per l’indipendenza. Una misura che era stata già contestata nel 2018, quando la quota dal 56% era stata abbassata al 35% e, dopo le recenti proteste, portata il 21 luglio al 5%. La lotta per raggiungere questo obiettivo – costata la vita ad almeno trecento giovani, con un bilancio di oltre undicimila arresti – ha determinato, il 5 agosto scorso, la fuga in India di Hasina, la cui politica si era caratterizzata per la deriva autoritaria e antidemocratica.
Incredibilmente, al suo posto i militari, che hanno sciolto il parlamento con l’impegno di indire nuove elezioni, hanno scelto una delle figure più virtuose della scena politica mondiale e bangladese, quel Muhammad Yunus, meglio conosciuto come il “banchiere dei poveri”, insignito del Premio Nobel per la pace nel 2006. Un successo per il movimento studentesco che ha visto accolta dall’esercito, guidato dal generale Waker Uz Zaman, la sua richiesta.
Sul ritorno inaspettato sulla scena politica bangladese di questo singolare personaggio, torneremo più avanti; intanto puntiamo l’attenzione sulle pesanti violazioni dei diritti umani: attacco alla libertà di stampa, uso della magistratura per colpire esponenti politici dell’opposizione spesso vittime di esecuzioni extragiudiziali. Una situazione che aveva allarmato l’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, che aveva già chiesto a Hasima la fine di questa politica repressiva, senza però alcun risultato, essendo ormai il Palazzo di vetro una sorta di ente inutile (vedi il conflitto mediorientale e altro).
Va del resto ricordato che nelle elezioni del 2014 l’ex leader vinse in quanto gli oppositori si rifiutarono di partecipare al voto. Ora, in questa fase di complicata transizione, quello che era l’ex Pakistan orientale sta inaspettatamente vivendo una congiuntura economica positiva. “Il Bangladesh – commenta Nicola Missaglia, ricercatore presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) con particolare riferimento all’Asia – purtroppo non è nuovo alle fiammate di violenza politica, repressione e rabbia che hanno travolto il Paese anche in questi mesi. Eppure, chi di noi se lo aspettava? Un’economia fiorente – finché non è arrivata l’inflazione –, un’elevata alfabetizzazione e infrastrutture moderne, un hub globale del tessile”. Ma – aggiunge lo studioso – “la comunità internazionale, a partire dai Paesi occidentali che con il Bangladesh di Hasina hanno fatto affari d’oro, è stata fin troppo attenta a chiudere un occhio (o forse due) sui problemi che covavano sotto la patina del business a buon mercato: soffocamento del dissenso, compressione delle libertà, violenza istituzionalizzata. Incredibilmente – sottolinea Missaglia – questa volta è spettato ai giovani bangladesi in rivolta il compito di ricordare a tutti, democrazie in testa, che una crescita economica che avviene a discapito dei diritti nasconde sempre una realtà fragile, instabile, pronta a esplodere”.
Senza dimenticare che negli ultimi venticinque anni il tasso di disoccupazione giovanile ha registrato una crescita continua, malgrado che in alcuni casi ci sia stato un abbassamento del fenomeno nella popolazione in generale. È questo il quadro che si troverà di fronte Muhammad Yunus, nato nell’India nordorientale, economista, già docente presso l’Università di Boulder, in Colorado, e alla Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, fondatore dellaGrameen Bank e ideatore del “microcredito”. “Quando Yunus presentò per la prima volta la sua idea di una banca per il microcredito – dice Riccardo Moro, economista e docente di Politiche dello sviluppo presso la Statale di Milano –, molti ambienti finanziari accolsero l’iniziativa con scetticismo. Tuttavia, Yunus non vedeva il microcredito come un’alternativa al mercato tradizionale, ma come un modo per umanizzarlo. Questo approccio – sottolinea Moro –, centrato sulle persone, ha catturato l’immaginazione dei giovani del Bangladesh, che vedono in Yunus il garante di un cambiamento autentico e dal basso”.
Il tema è questo: a causa della mancanza di garanzie, non è possibile accedere al credito bancario, ostacolo principale per migliorare le proprie condizioni di vita. Concedere invece alle persone un piccolo credito da gestire con oculatezza (non a caso viene concesso preferibilmente alle donne più consapevoli nell’uso di queste risorse), è stata ed è l’idea dell’economista. “Questo approccio – dice ancora Moro – non solo sfidava il sistema bancario tradizionale, ma mostrava anche che era possibile ottenere risultati economici migliori, riducendo i livelli di sofferenza finanziaria”.
Il modello è stato esportato in altri Paesi asiatici, in Africa e in America latina. Passato l’entusiasmo iniziale, si pone il problema di come questo anziano economista (84 anni) ricoprirà, nel breve periodo, il ruolo che gli è stato assegnato. Intanto dovrà stabilire la data delle prossime elezioni, verosimilmente con l’esercito e le due principali forze in campo, il Partito popolare e la Lega nazionale, che si sono battute per l’indipendenza. La soluzione più saggia sarebbe un governo ancora a guida Yunus, con la partecipazione delle due citate forze politiche – che dovranno sotterrare l’ascia di guerra –, con l’obiettivo di rispettare i diritti umani e garantire una distribuzione più equa delle risorse. Il tutto sotto la supervisione delle forze armate, e anche del movimento che, grazie alla propria mobilitazione, è riuscito a cacciare una despota incapace di ascoltare la popolazione.