Avevamo sperato nelle primavere arabe, tredici anni fa. In un cambio di regime in Libia, Egitto, Tunisia, Algeria. C’erano i presupposti (o le illusioni) che il Mediterraneo rivierasco potesse contaminarsi con l’Europa democratica dirimpettaia. Solo il Marocco sembrava respingere il vento della speranza, del cambiamento. Pensavamo così di risolvere anche, o forse soprattutto, l’angosciante problema degli “sbarchi”, uno stillicidio di centinaia di migliaia di immigrati (quasi un milione e mezzo) arrivati o annegati nel Mediterraneo dall’inizio di questo millennio a oggi.
Agli inizi del secolo, gli arrivi sembravano pilotati da Muammar Gheddafi nella speranza, così, di far cadere gli embarghi europei e occidentali contro la “scandalosa” e autoritaria Libia del colonnello. Ma se guardiamo ai dati degli sbarchi dalla primavera araba (2011) in poi, i numeri sono impressionanti (il picco è nel 2016, con 181.000 arrivi). Accanto alla Libia, decine di migliaia di migranti sono partite dalla Tunisia. Anche se fino a oggi – dal primo gennaio 2024 al 6 settembre – sono sbarcati in Italia solo 44.000 immigrati.
Avevamo aspettato invano che il seme della libertà e della giustizia attecchisse in Egitto, Libia, Algeria, Tunisia. Ma a tredici anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia è sempre di più una santabarbara sull’orlo di una guerra civile pilotata dalla presenza in Cirenaica, nel Fezzan e in Tripolitania, di eserciti, mercenari e intelligence stranieri. Sono loro che armano e guidano gli interessi di clan, eserciti, milizie locali che costituiscono l’ossatura dello Stato corsaro libico. Lo scenario geopolitico dell’Africa subsahariana e rivierasca è cambiato in pochi anni. La potenza postcoloniale della Francia è stata cacciata da Burkina Faso, Mali e Niger. In questi tre Paesi – ma anche in Libia, Ciad, Africa centrale, Sudan – sono arrivati i russi. Militari russi, non più solo i mercenari della Wagner che fu.
Secondo fonti libiche, i russi hanno loro basi navali, e non solo a Tobruk, Bengasi e Al Jufra. Stazioni e sedi della Cia, dei servizi inglesi, italiani e francesi, sono funzionanti in Cirenaica. Presidi militari italiani, inglesi e francesi sono a Misurata. I turchi hanno una base navale a Homs, e un’aerea, insieme a mercenari siriani, ad Al-Watiya, nel sud-ovest libico.
Tutto l’Occidente, di fronte alla decisione della Cirenaica del maresciallo Haftar di autorizzare la presenza militare russa, si è schierato con il governo di Tripoli. E la crisi politica libica è come se fosse “sospesa”. Non esplode ma neppure trova una soluzione. Prevale lo status quo, perché da questa situazione ci guadagnano tutti gli attori in scena. Da Khalifa Haftar, che domina la Cirenaica e il Fezzan, avendo trasferito da Tobruk a Bengasi la sede del parlamento, al premier di Tripoli, Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh. E tutti con le loro diverse milizie che trafficano droga (dal Marocco) e in migranti.
L’Italia era l’unico Paese che poteva vantarsi di avere suggellato con il voto dei due parlamenti nazionali, un trattato di amicizia tra i due popoli, quello libico e quello italiano. Ma noi non abbiamo saputo o voluto sfruttare questo privilegio ereditato dal regime Gheddafi. E oggi non contiamo assolutamente nulla. Foraggiamo, sotto banco, i due regimi di Tripoli e Bengasi, soprattutto la Cirenaica del maresciallo Haftar, per ridurre il flusso di migranti diretti in Italia. È sempre stato un limite dei governi di Roma. Affrontare la Libia solo come un problema di ordine pubblico e non come una opportunità di politica estera. Non solo per le risorse energetiche (petrolio e gas) di cui dispone, ma anche dal punto di vista della collocazione strategica. Ed è così che, negli anni, inglesi e americani da dietro le quinte hanno tirato i fili dei padrinaggi politici. Sono il Qatar, gli Emirati arabi uniti, l’Egitto e la Turchia a “governare” le decine di milizie che controllano traffici, territori e abitanti.
Oggi è il tempo delle tenebre. I migranti continuano a morire in mare, mentre il governo Meloni sequestra (con i fermi amministrativi nei porti) tutte le navi salvavita delle Ong, aspettando di aprire i lager di detenzione in Albania. E, in un Mediterraneo lasciato senza presidi umanitari, è destinato a sparire il sogno di migliaia di persone senza speranze, testimoni di guerre e violenza, di catastrofi ambientali e umanitarie. Persino le Nazioni Unite hanno chiuso gli uffici della missione di sostegno in Libia, dopo le dimissioni del suo responsabile, il senegalese Abdoulaye Bathily. Oggi il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, fa affidamento solo sulla sua consigliera Stephanie Koury.