(Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2024)
“Negli anni Sessanta nel kibbutz dormivo con il mitra sotto il letto”. Basterebbero queste poche parole – pronunciate da Melvin Schlein, politologo americano, già professore di Scienze politiche alla Franklin University di Lugano e padre della segretaria del Partito democratico, Elly, in una recente intervista – per capire che nel progetto sionista che prevedeva, come poi è avvenuto, la costruzione dello Stato d’Israele in Palestina c’era qualcosa che non andava. Un approccio che poneva le premesse di un futuro complicato e drammatico che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto invece risolvere il problema millenario del popolo ebraico, mettendolo al riparo dall’antisemitismo. Chiariamo subito, però, che non intendiamo entrare nella discussione “sionismo sì, sionismo no”. Nella misura in cui Israele esiste deve continuare a farlo, e non intendiamo augurarci una sua scomparsa, che avverrebbe nell’ambito di una catastrofe ancora peggiore di quella attuale.
Ma certamente un bilancio va fatto, e bene farebbero gli israeliani e gli ebrei illuminati a metterlo in atto. È doveroso, al riguardo, un minimo di ricostruzione storica per capire come si sia arrivati a questa situazione apparentemente senza via d’uscita – ancor più dopo la strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre e la criminale reazione del governo con la stella di Davide nella striscia di Gaza.
Il sionismo nasce verso la fine del Diciannovesimo secolo come ideologia politica nazionalista, con tratti in parte fortemente laici e liberal-socialisti, che tuttavia non potevano non affondare le radici nella religione ebraica, come dimostra l’origine del nome, che fa riferimento al monte Sion, quello che sovrasta Gerusalemme, e al concetto di “terra promessa”, tutte tematiche presenti nei testi sacri. Ma solo alla fine dell’Ottocento – grazie all’attivismo del giornalista austro-ungarico Theodor Herzl, inviato nel 1895 a Parigi per seguire l’affare Dreyfus – prende corpo la necessità per gli ebrei di un luogo sicuro al riparo dal persistente antisemitismo. Il suo obiettivo, ben espresso nel libro Der Judenstaat (1896), era “la creazione di una patria sicura per coloro che non possono e non vogliono assimilarsi”. I pogrom avvenuti in Russia e in Polonia (nel 1881-82 e nel 1903-06) non fecero altro che fortificare questa convinzione. Da allora, 2.285.000 ebrei fuggirono da Mosca e dintorni: di questi, 45.000 si stabilirono in Palestina e i restanti, dunque la maggioranza, negli Stati Uniti. Quasi un milione abbandonò la Polonia, e anche in questo caso circa quarantamila arrivarono in Medio Oriente. Nel primo congresso sionistico del 1897, a Basilea, vennero tracciate le linee guida che avrebbero dovuto portare alla colonizzazione – perché di questo si trattò, sia pure sotto mentite spoglie – della Palestina. Con la rinascita, appunto, di uno spirito nazionale e politico-religioso, che doveva porre le basi della costruzione di uno Stato, là dove gli ebrei, a parte piccole comunità che via via stavano crescendo, erano assenti da secoli.
Dopo anni di stallo, nel 1917 arriva la Dichiarazione di Balfour, dal nome del ministro degli Esteri britannico, con la quale furono poste le basi, questa volta reali, per la costruzione dello Stato d’Israele. Sorse così una sorta di organizzazione sindacale, la Histadrut, al fine di tutelare il lavoro degli ebrei in loco, e l’Haganah, un embrione di quello che sarà poi il potentissimo esercito israeliano. Finita l’era ottomana, la Palestina divenne un mandato britannico e, dopo la Shoah, quando l’esodo verso il Medio Oriente si fece via via sempre più massiccio, toccò a Londra gestirlo, anche per arginare gli inevitabili scontri con le popolazioni arabe, ma senza risultati. Nel 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e un altro arabo – ma questa proposta viene comprensibilmente rifiutata dagli arabi, che non riescono ad accettare l’arrivo di veri e propri coloni, ai quali cedere una parte dei propri territori.
Quello che succede da allora è storia nota: arriva la proclamazione, il 18 maggio 1948, dello Stato d’Israele, che per i palestinesi è invece una catastrofe, ovvero una nakba, che vide il primo esodo di migliaia di profughi. E poi un susseguirsi di guerre sempre vinte da Israele contro i vicini Paesi arabi, un crescendo di occupazioni illegali – Cisgiordania, Gerusalemme Est, Gaza, il Sinai in Egitto e il Golan in Siria –, tutte condannate da risoluzioni delle Nazioni Unite, piani di pace falliti, e infine uno spostamento sempre più a destra della classe politica israeliana, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Il grande punto interrogativo che si ripropone, ogniqualvolta si affronti questo conflitto spaventoso che i più – opinionisti, giornalisti, politici e quant’altro – evitano accuratamente di affrontare, è come il sionismo si sia relazionato con quegli arabi con cui gli ebrei cominciarono a convivere all’inizio del secolo scorso. Di fatto, senza trascurare la singolarità di questo fenomeno religioso e politico al contempo, si è trattato, come abbiamo detto, di una vera e propria colonizzazione mascherata da un diritto che, dal punto di vista giuridico, non aveva alcuna ragion d’essere. Lo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, molto utilizzato dai sionisti tra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, dovrebbe essere sufficiente a capire quale considerazione avessero gli ebrei di una popolazione che viveva lì da secoli, in maggioranza islamica e in minoranza cattolica. Era appunto il classico approccio coloniale, quello che il mondo stava archiviando nel secondo dopoguerra, tranne evidentemente in quell’area geografica, dove si stava materializzando un evento fuori dall’ordinario.
Che l’idea dominante tra gli ebrei sionisti (praticamente quasi tutti) fosse quella che abbiamo descritto, lo dimostrano le considerazioni che fece allora il grande scrittore ebreo russo, Asher Ginzberg, riportate dallo studioso ebreo, scrittore e direttore aggiunto di “Le Monde diplomatique”, Alain Gresch, nel libro Israele, Palestina. Le verità su un conflitto (Einaudi editore). Chiamato dagli ebrei con lo pseudonimo di Aḥad Ha’am (“uno del popolo”), Ginzberg si recò per la prima volta in Palestina nel 1891. Fu per lui l’occasione per scrivere un articolo, Verità della Terra d’Israele, nel quale riportava le sue impressioni su quella popolazione, ristabilendo un principio di verità: “Abbiamo l’abitudine di credere fuori da Israele che la terra d’Israele sia oggi quasi del tutto deserta. Arida e incolta, e che chiunque voglia comprare terreni possa farlo senza intralci. Ma la verità è completamente diversa. In tutto il Paese è difficile trovare campi coltivabili che non siano coltivati. Abbiamo l’abitudine di credere – aggiungeva il letterato –, fuori da Israele, che gli arabi sono tutti selvaggi del deserto, un popolo che somiglia agli asini; che non vedano e non capiscano quello che accade intorno a loro. Ma questo è un grave errore. L’arabo, come tutti i figli di Sem, ha un’intelligenza acuta e scaltra (…). Se verrà il giorno in cui la vita del nostro popolo (gli ebrei) nel Paese d’Israele si svilupperà al punto da spingere in là, anche solo di un poco, la popolazione locale, quest’ultima – conclude Ginzberg – non abbandonerà mai il suo posto facilmente”.
Insomma, la Palestina tutto era fuorché una “terra senza popolo”. E di testimonianze di questo tipo ne troviamo altre. Ne parla, per esempio, in una recente intervista a “Micro Mega”, Lorenzo Kamel, docente di Storia globale e Storia del Medio Oriente e del Nord Africa all’Università di Torino, autore di Terra Contesa. Israele, Palestina e il peso della storia (Carocci editore). Dice Kamel: “Yitzhak Epstein – scrittore russo immigrato in Palestina nel 1886 –, rivolgendosi al settimo Congresso sionista del 1905, chiarì ai delegati riuniti che ‘nella nostra amata terra vive un intero popolo che ha dimorato lì per molti secoli e che non ha mai preso in considerazione l’idea di andarsene’”. Aggiungiamo, e questo è un altro tema, che “questi esempi sono lì a ricordarci che il movimento sionista fu tutt’altro che un monolite, e che molti degli aspetti critici in rapporto alla popolazione palestinese erano ben presenti già al tempo”.
Tuttavia gli avvertimenti e le analisi di questi intellettuali caddero, sia pure a fasi alterne (vedi gli accordi di Oslo), nel vuoto e, con tutta evidenza, a prevalere è stato il sionismo più oltraggioso nei riguardi delle popolazioni locali – sebbene forse non potesse andare diversamente: quella terra era degli ebrei, punto e basta. Tutti i tentativi di arrivare a una pace partivano, in ogni caso, da questo presupposto, e dunque ogni cessione di terra ai palestinesi diventava, diciamo così, un favore. Questo approccio, a causa dell’attuale governo Netanyahu, con all’interno forze di estrema destra che vorrebbero la cancellazione del popolo palestinese, ribadendo così il concetto di “terra senza popolo”, rende complicata – ma sarebbe meglio dire impossibile – l’idea mantra “due popoli due Stati”, che solo ora gli Stati Uniti, l’Europa e il mondo arabo si affannano a porre di nuovo come l’obiettivo da tempo dimenticato.
Tornando a Melvin Schlein, non si può quindi che condividere il suo pessimismo circa il raggiungimento di quell’obiettivo previsto dagli accordi del 1993. Lo stesso pessimismo espresso, sia pure partendo da punti di vista e culture diverse, dallo storico israeliano Ilan Pappe, fra i rappresentanti più importanti della cosiddetta “nuova storiografia israeliana” e autore, con altri, del libro La prigione più grande del mondo (Fazi editore). Un uomo scomodo, secondo cui non esistono “occupanti liberali” o “colonizzatori benigni”. In un’intervista rilasciata a “La Stampa”, lo scorso novembre, lo studioso riteneva impossibile arrivare a costruire uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. “In Cisgiordania sono stanziati 600.000 coloni ebrei e vige il consenso israeliano sul fatto che essi non possano venire spostati. Israele – sottolinea lo storico – controlla il 60% della Cisgiordania e resiste il beneplacito da parte di Israele a che tale situazione permanga in futuro. Non vi è spazio per un altro Stato: dovremmo trovare un’altra soluzione, che possa garantire la costituzione di uno Stato democratico”. Qualora si dovesse concretizzare, chissà quando, uno scenario del genere sarebbe la fine del sionismo e l’ammissione del suo fallimento. Con la riapertura, per la verità mai chiusa, della questione ebraica e della drammatica storia a essa legata.