Le prossime elezioni non vanno in alcun modo sottovalutate. Le poste in gioco sono due: c’è una partita europea, e ce n’è un’altra tutta italiana. Cominciamo dalla prima. Lo segnalavamo già l’anno scorso: si tratta di opporre all’ondata nera, che rischia di sommergere l’Europa, un “no pasarán” in stile spagnolo (vedi qui). Non nel senso della guerra civile, naturalmente, ma in quello della sua attualizzazione da parte di Pedro Sánchez, il migliore politico socialista che il nostro continente abbia in questo momento, il quale ha dimostrato, con molta determinazione, come sia possibile anzitutto richiamare alle urne un elettorato di sinistra spesso disaffezionato, e poi come possa essere condotto un difficile negoziato per formare una maggioranza di governo. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: il Psoe di Sánchez è arrivato in testa nelle elezioni catalane, superando gli indipendentisti, gli stessi con cui, nei mesi scorsi, aveva condotto le trattative per ottenerne il sostegno in parlamento. Il coraggio paga. La postura secessionista ha perso consensi; e il Psoe può farsi vanto della lungimiranza della propria politica, insieme aperta al dialogo ma ferma.
Se trasferiamo questa prospettiva a livello europeo, che cosa osserviamo? In primis che è necessario rimotivare gli elettori, far capire loro che non è certo con l’astensione che si può evitare un pauroso spostamento a destra dell’Unione. I conservatori del Partito popolare sono pronti ad aprire le porte alla destra estrema (se non a quella di Marine Le Pen e di Salvini, a quella di Meloni), ed è quindi con il successo delle liste che fanno parte del gruppo del socialismo europeo che si potranno, male che vada, mantenere gli equilibri attuali. Si dovrà mirare poi a una trattativa per arrivare a una presidenza della Commissione non immobilista, capace cioè di rilanciare i programmi europei di fondo, oggi anestetizzati quando non bloccati dal fronte ultraconservatore che si va formando. Ci riferiamo soprattutto alla transizione ecologica, diventato il principale terreno di scontro scelto dagli interessi della conservazione sociale in generale, che nelle recenti agitazioni degli agricoltori hanno trovato un punto di appoggio.
I nazional-populismi vanno battuti mostrandone l’aspetto inevitabilmente “demonico”: per quanto possano presentarsi oggi con un volto falsamente pacifista, sono infatti, da sempre, portatori di guerra. Non è semplicemente prendendosela con i pruriti bellicisti di Macron, come fa Salvini, che si contrastano i venti di un possibile conflitto mondiale. Va indicata una via europea che conduca a un negoziato tra l’Ucraina e la Russia, senza abbandonare Kiev, ma spingendola ad accettare la rinuncia a una parte dei propri territori. Al momento, questa prospettiva appare del tutto minoritaria; ma se c’è un gruppo nel parlamento europeo che potrebbe – se non totalmente, almeno nella sua maggioranza – spingere in questa direzione, questo gruppo è quello dei socialisti e democratici, che hanno il pacifismo nel loro Dna. Non per nulla il cancelliere socialdemocratico Scholz – pur in una posizione difficile, attorniato com’è da guerrafondai liberali e perfino verdi – si è comportato comunque con prudenza, evitando di consegnare a Kiev quei missili a lunga gittata che condurrebbero a un’escalation (vedi qui).
Circa la partita italiana, essa riguarda, ovviamente, i rapporti di forza elettorali tra un ipotetico campo progressista, con al suo centro il Pd, e i partiti della maggioranza parlamentare di destra. È in corso un processo di polarizzazione personalizzante, all’interno di questi rapporti, tra la segretaria democratica e la presidente del Consiglio. Ciò può piacere o no, ma le cose stanno così. Il giorno successivo alle elezioni si misurerà a quanto ammonta il distacco tra Fratelli d’Italia e il Pd schleiniano, e se quindi la segretaria potrà avere disco verde, all’interno del suo partito, per proseguire nel mandato. Un risultato magro per Schlein, al di sotto della soglia del 20%, aprirebbe un serio problema, con una parte del partito pronta a mandarla via. Fin qui la segretaria – criticabile finché si vuole, ma che comunque ha impresso una svolta in un partito ormai ridotto a una “morta gora” centrista – si è difesa benino se non bene, facendo dei compromessi (per esempio nella formazione delle liste elettorali), ma tenendo il punto sulle questioni di fondo (per esempio firmando la proposta dei referendum della Cgil). Sostenerla è doveroso, se si vuole che ci sia qualcosa che – pur assomigliando solo debolmente a quel partito che non c’è e tuttavia ci vorrebbe – sia in grado di non lasciare campo libero alle destre.