La nuova ondata di violenze che ha colpito Port-au-Prince, la capitale di Haiti – uno dei Paesi più poveri non solo del continente americano, ma del mondo intero –, ha avuto inizio giovedì 29 febbraio, dopo che il primo ministro delle Bahamas, Phillip Davis, aveva dichiarato, durante il vertice della Comunità dei Caraibi (Caricom), che il primo ministro haitiano, Ariel Henry, si sarebbe impegnato a tenere elezioni prima del 31 agosto 2025. Il Paese non ha più organizzato elezioni di alcun tipo dal 2019, e non ci sono più funzionari eletti, poiché il mandato dei precedenti si è da tempo esaurito. In seguito al diffondersi della notizia, uomini armati hanno attaccato due commissariati di polizia, ucciso quattro agenti, sparato in vari quartieri, creato il panico negli aeroporti della capitale, colpendo tre aerei e provocando l’annullamento dei voli in partenza e in arrivo.
Il fine settimana si è trasformato in un incubo per la popolazione a causa dell’offensiva della criminalità, che ha messo a ferro e fuoco a suo piacimento la capitale, producendosi in uno spettacolare assalto al più grande penitenziario nazionale, nel corso del quale sono stati liberati 3597 detenuti sui 3.696 presenti, il che corrisponde al 97% degli ospiti del carcere. Tra i prigionieri che hanno deciso di non lasciarlo, ci sono i mercenari colombiani accusati di aver partecipato all’assassinio del presidente haitiano, Jovenel Moïse, nel 2021 (vedi qui). Costruito per ospitare un massimo di settecento reclusi, la prigione ne ospitava circa 3.687 lo scorso febbraio, secondo le cifre della Ong Red Nacional de defensa de los derechos humanos (Rnddh). I detenuti che non sono fuggiti hanno parlato alla stampa delle cattive condizioni di vita nella prigione di Port-au-Prince, dove almeno tre quarti dei carcerati sono in attesa di giudizio. Di fronte allo scoppio della violenza, i residenti hanno dovuto barricarsi in casa per evitare il peggio. In breve, il clima a Port-au-Prince è diventato tale che l’ambasciata degli Stati Uniti ha consigliato ai suoi cittadini di lasciare il Paese appena possibile, mentre quella francese ha chiesto ai connazionali di non circolare nei quartieri della capitale.
Secondo i media locali, oltre al penitenziario nazionale, è stata attaccata anche una seconda prigione cittadina che ospita circa 1.400 reclusi, senza che si abbiano notizie sull’esito di questo attacco. In molte zone della città, sono state erette barricate da commando di persone con il volto coperto, che hanno incendiato pneumatici e sparato con armi automatiche. Mentre le televisioni hanno trasmesso video di cittadini che girano nelle strade della capitale senza badare ai corpi dei morti ammazzati a terra.
I pandilleros rivendicano il controllo dell’80% della capitale e intendono puntare all’assalto della Banca centrale. Nelle ultime ore, è aumentato il numero degli sfollati in fuga dagli scontri tra bande e polizia nel centro della città, mentre proseguono gli annunci di possibili attacchi contro le istituzioni pubbliche. Il portavoce delle Nazioni Unite, Stéphane Dujarric, ha detto ieri, 5 marzo, che la violenza a Haiti ha causato l’abbandono delle proprie case da parte di quindicimila persone negli ultimi giorni.
Intanto, è stato confermato che, dopo diversi giorni di incertezza sul suo destino, Ariel Henry è atterrato a Porto Rico. In assenza del premier, non ancora ritornato dal suo viaggio in Kenya, dove ha siglato un accordo per una missione multinazionale concordata con l’Onu, domenica scorsa il governo aveva annunciato uno stato di emergenza di tre giorni, rinnovabile, e un coprifuoco notturno. Con l’annuncio del coprifuoco, il governo spera di “ristabilire l’ordine e prendere le misure appropriate per riprendere il controllo della situazione”. Le autorità hanno riconosciuto che il Paese soffre di “un degrado della sicurezza”, dopo mesi di scontri tra bande.
Port-au-Prince è precipitata nel terrore dopo che Jimmy “Barbecue” Cherizier – un ex ufficiale di polizia, che guida una delle principali bande armate – ha invitato i vari gruppi armati a unirsi per rovesciare Ariel Henry. Le bande criminali, federate nella nuova sigla “Vivre ensemble”, hanno utilizzato un sistema di droni per preparare l’assalto al carcere, in cui sono penetrate senza problemi, con un bilancio di almeno quindici morti, frutto dello scontro a fuoco con le forze dell’ordine. L’ex poliziotto, nonostante sia “attivamente ricercato” per la sua partecipazione a diversi massacri, circola liberamente per Haiti. “Tutti noi, i gruppi armati delle città di provincia e i gruppi armati della capitale, siamo uniti”, ha detto Barbecue. L’ultima esplosione di violenza conferma una tendenza che già lo scorso gennaio l’Onu aveva denunciato, rendendo noto che, l’anno passato, più di 8.400 persone erano state vittime delle bande a Haiti. Un numero che comprende omicidi, feriti e rapimenti, e corrisponde a più del doppio di quanto era stato registrato nel 2022.
L’opinione più diffusa è che l’obiettivo dei gruppi violenti sarebbe quello di rafforzare le proprie posizioni prima dell’arrivo della missione multinazionale di sostegno alla sicurezza, che comporterà il dispiegamento di un contingente di mille poliziotti kenioti deciso dall’Onu lo scorso ottobre. L’unica misura che si sia stati in grado di mettere in piedi, dopo i tentativi falliti delle Nazioni Unite di inviare una missione multinazionale, nonostante il Consiglio di sicurezza avesse approvato, all’inizio dell’anno scorso, una risoluzione per autorizzare tale missione. Dal canto suo, la polizia haitiana dispone di circa novemila agenti, generalmente peggio armati delle bande criminali, con i quali deve assicurare la sicurezza a più di undici milioni di persone. Mentre secondo le valutazioni dell’Onu il Paese avrebbe bisogno di avere un corpo di polizia di almeno ventiseimila addetti.
Secondo dati raccolti dalle Nazioni Unite, più di ottocento persone sono morte a gennaio, una cifra che rivela l’esistenza di una guerra interna che dissangua la nazione caraibica. Come già accade in altre nazioni dell’America latina, la violenza provoca l’espulsione di decine di migliaia di haitiani. In buona misura diretti alla volta della Repubblica dominicana, il Paese vicino, destinazione principale della diaspora. La tensione causata dal gran numero di migranti ha fatto sì che il suo presidente, Luis Abinader, abbia recentemente lanciato un disperato appello per “salvare Haiti”. Se la miseria è forse la prima causa della grande diaspora, paradossalmente è anche il primo motivo per cui Haiti ancora sopravvive, grazie alle rimesse inviate dagli espatriati ai parenti rimasti. Mentre il governo appare totalmente incapace di affrontare la grave situazione.
La quasi completa assenza dello Stato spiega come le bande armate abbiano potuto prenderne il posto, trasformandosi in una sorta di nuovo Stato, in cui i cittadini sono costretti a vivere sotto le ali protettive delle bande, che fanno pagare le tasse e concedono i permessi per costruire o riparare le case. Dopo la dittatura di François Duvalier e del figlio, che fece cinquantamila morti, i Tonton Macoute, la polizia segreta dei Duvalier, ha continuato ad assassinare negli anni successivi, mentre, con l’avvento della democrazia, l’instabilità e la corruzione si sono ancor più radicate. Il terremoto del 2010, che causò più di trecentomila morti, fu l’altro grave colpo inferto a Haiti, seguito da quello verificatosi nel 2021, quando il presidente Jovenel Moïse è stato ucciso da mercenari colombiani nella sua casa. Dalla morte di Moïse, Haiti è un Paese senza nessuno alla guida: senza un parlamento e un senato funzionanti, senza un sistema di raccolta dei rifiuti, quasi senza un sistema sanitario pubblico, con una scarsa presenza della polizia, con l’85% dei detenuti senza processo, dato che i tribunali sono in pratica bloccati. Manca perfino la luce: per ottenerla si deve ricorrere ai generatori forniti da una impresa privata.
Continua a esserci Ariel Henry, che esercita il ruolo di primo ministro con la contrarietà della maggioranza della popolazione. Avrebbe dovuto lasciare l’incarico all’inizio di febbraio, ma non si decide a convocare le elezioni. Henry era stato nominato il 5 luglio 2021 come primo ministro da Moïse, il presidente di Haiti. Ma, due giorni dopo, quest’ultimo era stato assassinato. Da allora Henry – la cui autorità è stata riconosciuta da Canada, Stati Uniti, Francia e altri Paesi occidentali – è rimasto al potere, nonostante la sfiducia della popolazione e la richiesta di elezioni democratiche da parte della società civile. Il 7 febbraio, il mandato di Henry è scaduto, ma il presidente ha ignorato la richiesta di cedere il potere, promettendo una transizione che non si materializza, il che ha alimentato l’ira dei cittadini. Gli esperti intervistati concordano sull’importanza di formare un governo di transizione affidabile, che sostituisca quello attuale e dia inizio a un processo elettorale di ripristino della democrazia.
Si stima che nel Paese operino duecento bande, e che solo a Port-au-Prince ci siano circa novantacinque gruppi criminali attivi. Uno dei due più potenti è comandato appunto da Barbecue, che tiene conferenze stampa, guadagna milioni di dollari e ha persino bloccato il porto della città, impedendo l’ingresso di merci e cibo. Da molti è visto come il futuro sindaco e, in pubblico, chiede di distinguere tra bande criminali e gruppi armati che rispondono a una ideologia. Questi sono corpi ben organizzati, pesantemente armati e con un progetto politico. Barbecue, più che il capo di una banda, è un caudillo quasi militare. “Se Ariel Henry non si dimette, il Paese si dirige direttamente verso il genocidio. Se la comunità internazionale continua a sostenere Ariel Henry, ci stiamo dirigendo verso una guerra civile che porterà a un genocidio”, ha detto l’ex poliziotto.
“Evitiamo che Haiti finisca devastata dal caos e dall’anarchia, non permettiamo che la crisi che si sta vivendo lì si espanda in tutta la regione”, ha chiesto il presidente della Repubblica dominicana al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a metà febbraio. Abinader ha fatto un appello urgente affinché la comunità internazionale rafforzi gli aiuti a Haiti, e una forza internazionale sia schierata per affrontare il caos generato da anni di crisi politica e sociale. “Da settembre 2021, il nostro governo denuncia, davanti a vari organi dell’Onu, il continuo deterioramento delle condizioni sociali a Haiti. Purtroppo, la grave situazione che sta vivendo il Paese vicino non è stata trattata con l’urgenza e la forza che merita. Il risultato è che oggi Haiti, con gran parte del suo territorio controllato da bande criminali, è sull’orlo di una guerra civile”, ha affermato il presidente dominicano. “Il tempo delle promesse è finito. Da oggi entriamo nel momento della realizzazione. Il denaro arriva ora o il crollo di Haiti sarà irreversibile”, ha aggiunto. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato, all’inizio dell’anno scorso, la risoluzione per autorizzare una missione multinazionale di sostegno alla sicurezza, ma Abinader ha denunciato che gli impegni di aiuto sono rimasti lettera morta. Il “crollo” di Haiti – ha detto ancora il presidente – “sarebbe una minaccia per noi e per la regione. Ecco perché voglio avvertire oggi la comunità internazionale che la Repubblica dominicana combatterà con tutte le sue forze per evitare di essere trascinata nello stesso abisso. Evitiamo che Haiti finisca per essere devastata dal caos e dall’anarchia”. Le autorità dominicane hanno intanto sospeso i voli da e per Haiti, e hanno rafforzato la presenza militare ai confini terrestri con il vicino.
Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, per parte sua, ha affermato che Haiti è tra le nazioni che soffrono di più la fame, il che rafforza il caos e la violenza. “Una pancia vuota è un combustibile per l’agitazione”, ha detto. Mentre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha programmato per oggi, 6 marzo, una sessione straordinaria a porte chiuse per affrontare il caso di Haiti, Port-au-Prince ha ripreso ieri alcune attività quotidiane, con la riattivazione dei trasporti e del commercio. Nelle strade della capitale, dopo la paralisi di lunedì scorso, si sono formate lunghe file davanti a negozi, banche e stazioni di servizio. In qualche modo, la vita continua.