Il voto olandese non lascia più dubbi: stiamo andando verso un tempo senza sinistra, in cui la dialettica politica si giocherà nella contesa fra due destre. Il domino che vede estendersi la geografia di una destra reazionaria nel mondo è ormai sempre più lungo. Dopo la grandinata nell’Europa scandinava, la patria socialdemocratica, con Svezia e Finlandia che svoltano verso sponde xenofobe e intolleranti, abbiamo i risultati in Argentina – e ora nei Paesi Bassi. Il quadro, negli Stati Uniti, rimane largamente ipotecato da Trump, e gli equilibri in Francia – e nella stessa Spagna, dove pure l’eccezione indipendentista concede ancora margini ai socialisti – vedono una destra crescente. L’Italia è ormai il Paese di Giorgia.
Insomma, la tendenza è univoca; e, al di là delle inevitabili distinzioni culturali e geografiche, un unico filo nero, dovremmo dire, lega questo secco spostamento a destra: la connessione fra i ceti proprietari con le aree di disagio e insicurezza popolare. A unire i due schieramenti sociali, l’ansia di difendersi dai processi di globalizzazione che minacciano i primati e anche gli angusti risultati acquisiti, persino da chi è appena scampato a destini tragici riuscendo ad arrivare in Europa. Siamo ormai a un’internazionale di quel patto fra i secondi e i penultimi, che sta accerchiando e isolando le residue isole di cultura progressista e inclusiva. La sinistra si vede schiacciata, invece, fra una convergenza – elettoralmente ma anche politicamente inerte e logorante – fra élite intellettuali e professionali con vaste aree di emarginazione ed esclusione, che cercano protezione ma non producono rappresentanza, tanto meno in termini elettorali.
Quasi sempre i partiti di matrice socialdemocratica si trovano isolati nello scacchiere politico, privi cioè di un quadro di altre forze a cui collegarsi per fare massa critica, non diciamo alternativa all’avanzata reazionaria, ma almeno di significativa opposizione. Quando la legge elettorale, come in Inghilterra – o le specificità territoriali, come in Spagna –, permettono di rompere questo isolamento allora si creano occasionali, ma difficilmente durature, opportunità progressiste.
In generale, la dinamica vede (e l’Italia ne è un esempio solare) un partito di sinistra che raggranella faticosamente circa un quarto dei voti, quando va bene, del tutto inutilizzabili per combinazioni che possano scalzare le attuali maggioranze di destra-centro. La variabile dei 5 Stelle – con le sue prerogative di identità prettamente anti-elitarie e di discontinuità, sia nei contenuti sia nel metodo, con ogni ortodossia di sinistra – conferma la difficoltà a costruire alleanze vere.
E se torniamo al laboratorio olandese verifichiamo con una crudezza persuasiva come proprio le logiche mercantili, che la destra ha voluto esasperare nel decennio neoliberista – quello degli anni Ottanta del Novecento –, producendo disastrosi rovesci, paradossalmente abbiano innestato processi ulteriormente penalizzanti per la sinistra, contribuendo a cementare le nuove alleanze del fronte oltranzista. L’Olanda, infatti, ha incubato in questi anni – pensiamo a tutta la fase dell’intolleranza etnica promossa dal movimento di Pim Fortuyn e da Theo van Gogh, entrambi assassinati al culmine di furenti campagne anti-islamiche, o della capillarità delle proteste no vax durante la pandemia – mobilitazioni di massa sui temi dell’isolamento etnico e dell’anti-statalismo. Un processo che si è poi incontrato con quella sedizione dei ceti medio-alti, che hanno scoperto di non essere più i naturali padroni di un mercato che le tecnologie decentravano e ridisegnavano negli equilibri proprietari. Proprio la sovversione gramsciana dei ceti dirigenti è il nodo da affrontare, più che il disorientamento delle masse popolari che reagiscono a un’inedita inversione dei ruoli.
In Olanda, o anche in Austria e nei Paesi baltici e scandinavi (e per certi versi lo stesso comportamento lo cogliamo nelle regioni di maggiore benessere italiano, come il lombardo-veneto e la piattaforma tosco-emiliana), si coglie una vera e propria rivoluzione passiva, per rimanere a Gramsci, in cui i segmenti storicamente privilegiati dell’alta borghesia occidentale si vedono incalzati e minacciati da processi in cui si combinano tendenze a una incontrollata globalizzazione a Ovest, con protezionismo statale, che ridefinisce le regole della competizione a Est. Non dimentichiamo che l’Olanda è la terra che ha inventato la prima globalizzazione, in cui le Province unite (siamo nel XVI secolo) diventano cabina di regia di un inedito impero commerciale privatizzato, in cui una prima Compagnia delle Indie si sostituisce allo Stato, dettando le regole dello scambio diseguale e imponendo gli standard tecnologici nella gestione amministrativa e marinara delle merci. Sulla scia del proprio potere, gli olandesi determinano l’inizio della propria fine con la fondazione di New York e l’avvio della corsa atlantica. Dopo cinque secoli, il surfing sulle opportunità speculative che ha permesso a quel Paese di destreggiarsi, diventando la prima potenza virtuale del pianeta, in cui le dimensioni erano falsate dall’innovazione esercitata – pensiamo al mercato dei diamanti, o a quell’altro bluff storico che fu la “bolla dei tulipani” –, l’Olanda scopre oggi che la festa è finita. Diamanti e tulipani sono paccottiglia rispetto all’intraprendenza di energie giovanili che spingono le nascenti potenze asiatiche a sostituirsi nel traffico alla Silicon Valley.
La sindrome dell’assedio diventa il senso comune che salda, nell’immaginario dominante, i rischi che percepiscono i ricchi e i poveri urbanizzati, con le ambizioni di ripristino delle vecchie gerarchie. L’Europa, prima subita dalle élite nord-europee, e poi spregiudicatamente utilizzata come barriera all’integrazione con il resto del mondo – l’Olanda, con la Francia e la Germania, è il Paese del dumping agricolo che desertifica le agricolture dei Paesi nord-africani – è considerata una falla da tappare con l’austerità finanziaria, che restringa il campo dei decisori, e con una decisa svolta isolazionista per ridimensionare ogni velleità globalizzante. Un gioco complesso, che vede in campo due opzioni egualmente conservatrici: una che vede un centro moderato confermare il sodalizio atlantico in nome di un gradualismo nel declino occidentale; l’altra, palesemente reazionaria, che ormai punta chiaramente a ridisegnare la stessa democrazia rappresentativa, collegandosi con il fronte del totalitarismo orientale – e per questo scopre una contrapposizione con le strategie dell’attuale Casa Bianca, come abbiamo visto nella freddezza nel condannare l’aggressione russa e, per la prima volta, persino nella difesa di Israele, rispetto alla quale riemerge, con evidenza, una critica di destra palesemente venata da un antisemitismo atavico.
Siamo così a un tornante geopolitico. Gli Stati, persino i più potenti, come appunto quello americano o israeliano, o quelli europei, sono scomposti per tendenze di interessi: gli Stati Uniti sono divisi fra Trump e Biden; Israele fra Netanyahu e l’opposizione progressista; la Francia tra il centro di Macron e la destra neofascista di Le Pen. Un mosaico che riduce ogni protagonismo democratico, abilitando la potenza degli interessi proprietari rispetto a ogni idea di spazio pubblico come luogo della convivenza sociale.
È questo un mondo in cui la dissoluzione di una sinistra, che metta in discussione la logica capitalista, ha accentuato il carattere accaparratore e speculativo di una destra che oggi vuole tutto. Solo cogliendo la sfida strategica sulla visione di nuovi modelli sociali, dove quella vasta area di produttori e creatori di linguaggi possano dare corpo a una pretesa di investire in vivibilità, e non in mero consumo individuale, i profitti generati dai mastodontici processi tecnologici, si potrebbe riaprire quel dualismo che non ci pare nostalgico associare all’antico slogan “socialismo o barbarie”.