In una sequenza decisiva del film a lui dedicato da Christopher Nolan, Robert Oppenheimer, dopo la riuscita esplosione della bomba, sale sul podio per celebrare il trionfo con tutti i suoi collaboratori. Comincia il suo discorso convenzionale di ringraziamento, di elogio e di autoesaltazione; ma improvvisamente lo assale una visione simile a quelle della sua giovinezza infelice, il suono e le parole sono annichiliti, i corpi dei presenti si disgregano e si decompongono, come realmente accadrà a quelli delle vittime giapponesi. Oppenheimer stesso – Prometeo giunto al limite del suo delirio di onnipotenza – si disgrega psichicamente, e da questo momento in poi precipiterà sempre più nei vortici dell’autodistruzione e dell’autocommiserazione.
In lui coesistono il delirio di onnipotenza e l’illusione di giustificare e contenere nei suoi giusti limiti la distruttività di cui è divenuto il creatore. La bomba non serve forse per anticipare e sconfiggere i piani di Hitler? Non è questa una ineccepibile giustificazione morale? Però non sarà così: verrà usata quando Hitler sarà già morto, e i giapponesi saranno vicini alla sconfitta, come arma di deterrenza nella nascente guerra fredda con l’Unione sovietica.
Esiste una logica inesorabile, a quanto sembra, nella distruttività della tecnica innestata da Oppenheimer, che, resa indipendente e inesorabile, travolge il suo creatore come un destino. Tanto più che, in contraddizione con le sue convinzioni iniziali, egli appoggia l’uso della bomba a Hiroshima e Nagasaki. Salvo poi soccombere a una rivelazione potente che gli giunge dalle sue visioni e dal suo inconscio. Letteralmente, fino a quel momento, egli non sa quello che fa: non sa di avere messo in moto un ingranaggio che sfugge totalmente al suo controllo. Quando se ne rende conto la sua psiche si scinde, fino ad accettare il processo che gli viene fatto come una sorta di espiazione e di punizione per via indiretta, passando così in qualche modo dal ruolo di carnefice a quello di vittima.
Fin dalla giovinezza è travolto da visioni di forze elettriche cosmiche e astratte, e la sua dipendenza da una coazione a ripetere ossessiva è sottolineata più volte nel corso del film. Egli giunge a un tentativo di avvelenamento del suo docente di fisica da laboratorio, perché si sente ignorato e disprezzato da lui. Questo fondo incontrollabile di frustrazione e umiliazione è la molla del suo incoercibile bisogno di emergere e stupire. Il genio si basa qui su un gigantesco risentimento. Pulsioni arcaiche dirigono il suo ego, e la suprema astrattezza della tecnica sembra guidata da forze mitiche elementari.
Come è già stato sottolineato da Antonio Tricomi su questo giornale (vedi qui), l’esplosione della bomba è vissuta dal pool di scienziati come uno spettacolo da drive-in; la loro intelligenza si piega a effetti grotteschi, come lo schermo di vetro oscuro che dovrebbe proteggere gli occhi dalle radiazioni o la crema protettiva sparsa sul viso, come se si trattasse di fare un bagno di sole. Ma tutti i particolari convergono su una verità che abbiamo già osservato a proposito del protagonista: essi, in realtà, letteralmente, non sanno quello che stanno facendo. O meglio, le loro azioni sono note ma non conosciute, essi conoscono la superficie della distruzione che stanno mettendo in atto, ma non le sue conseguenze profonde. Fanno la storia, ma non hanno la più pallida idea di cosa la storia sia o stia per essere.
Purtroppo un terzo del film (tutta la parte che riguarda il processo Strauss in un poco giustificabile bianco e nero) è ridondante e superfluo, motivato solo dalla necessità spettacolare di creare un antagonista cattivo al protagonista, travolto invece dal pentimento. Il quale invece sfugge alla logica eroica spettacolare, proprio perché infine trionfa in lui la disgregazione, la dispersione, lo sdoppiamento dell’io. Come in altri personaggi dei film di Nolan: in The prestige o Memento, o anche Insomnia. Certo, il modello resta il C.F. Kane di Orson Welles, ma qui, per la prima volta, la volontà di potenza e il narcisismo del personaggio viene associato al trionfo della scienza bellica e all’astrazione della tecnica.
Oppenheimer è uno Stranamore tragico. Quali altri film pongono in questione la concezione heideggeriana della “tecnica come destino”? Perché il film mostra sì l’inesorabile meccanismo di produzione delle armi, che infine trascende la volontà dei suoi stessi creatori e travolge ogni buona intenzione di porre dei limiti solo difensivi alla sua azione; ma infine mostra che il destino è comunque legato alla responsabilità di decisioni politiche e morali. Da questo punto di vista, non manca di porre domande molto attuali, che riguardano le guerre in corso, e l’incremento mimetico ed esponenziale della produzione e dell’uso di armi sempre più sofisticate: si può porre un limite, si può arrestare la proliferazione mimetica della violenza, oppure ci si deve abbandonare a essa come a un destino mitico? Questione tipicamente novecentesca, che oggi sembra riproporsi in una tonalità drammatica. E più in generale: è possibile un uso diverso e alternativo della tecnica, come – contro Heidegger – sosteneva Walter Benjamin?
La tecnica bellica mostrata nel film è descritta come un sistema autoreferenziale, orientato a un “essere-per-la-morte”, da intendere in un senso molto più letterale di quello che intendeva Heidegger: come in una poesia di Gottfried Benn, “tutto vuole innalzarsi a un sangue straniero / come annegato alla deriva andare / nel fuoco vitale di un altro / e nulla vuole in se stesso restare”. Nella sequenza dell’esplosione la consunzione dei contorni dei corpi, delle anime e delle cose, si trasforma in spettacolo estetico della distruzione, che lo sguardo dei tecnici crede di contemplare da una riva lontana e sicura, come lo spettatore kantiano il naufragio: ma non è così, e lo spettacolo sfocia nell’impensato e nell’irrappresentabile, la forma nel senza forma più radicale.