(Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2024)
Nei discorsi di fine anno dei leader mondiali, si sono potute ascoltare – secondo i principali quotidiani italiani – dichiarazioni di questo tenore: Zelensky: “Devasteremo la Russia”; Putin: “Non arretreremo di un passo”; Xi Jinping: “La riunificazione con Taiwan è una inevitabilità storica”. Poco importa che queste affermazioni siano in parte, come oggi è costume, deformate, estremizzate e spettacolarizzate dai giornalisti a caccia di slogan; se si leggono i testi integrali, Zelensky si riferisce alle forze russe presenti in Ucraina, Putin alla minaccia di divisione della Russia e XI Jinping a una remota prospettiva storica. La notizia, presentata in questo modo, è comunque indicativa dello stato bellicoso e irresponsabile che si sta diffondendo nell’immaginario collettivo, e suggerisce qualche considerazione. La prima è che nell’epoca della guerra comunicazionale, informatica e digitale il linguaggio è straordinariamente simile a quello che precedette la “grande guerra”, fondato su rivendicazioni territoriali e risentimenti atavici, per torti storici precedenti veri o presunti. Una logica, per così dire, da “Alsazia-Lorena”, un odio insuperabile allora motivato con la perdita di qualche chilometro di territorio di qua o al di là del Reno.
La seconda osservazione è che, in una dialettica dell’illuminismo francamente impazzita, la guerra più moderna si risolve poi nell’arcaismo della guerra di trincea o – come sta accadendo a Gaza – nella conquista di ogni centimetro di terra col coltello in bocca. Trova così una triste conferma quel passo di Benjamin sulla Prima guerra mondiale, in cui paragonava le trincee ad antiche fosse sacrificali, e per cui la tecnica più evoluta era un aggiornamento dei sacrifici umani, che la civiltà europea e cristiana credeva di avere superato da tempo. Pulsioni belluine e distruttive, anche oggi giustificate con ideologie arcaiche, come la sacralità della nazione, il volere di Dio, il destino storico, la rigenerazione del popolo. Solo che questi vocaboli del Novecento sono oggi ridotti a una caricatura grottesca, perché la loro concezione dello spazio è divenuta del tutto desueta.
È la nozione stessa di territorio che in fondo è ammuffita, se la confrontiamo con lo spazio digitale, oggi percorso dai linguaggi (e dalle armi) nel tempo infinitesimale. Ciò non toglie che si senta il bisogno di ricorrere, per invitare alla morte, a queste parole sostanzialmente vuote, che sono come un’eco, un’ombra, un fantasma sbiadito del Novecento. Per cui, se il Novecento (secondo una poesia di Mandel’stam, commentata da Alain Badiou in un suo libro) è un “secolo belva”, con ideologie totalitarie e feroci ma credute fino all’estremo, il nostro potrebbe definirsi un “secolo ombra”: in cui la distruzione ricorre ancora a quel vocabolario, anche se ormai grottesco e desueto, in fondo posticcio.
Non che l’ombra sia meno feroce della belva: è che la pulsione di morte che la anima è sempre meno legata a una giustificazione plausibile e ancora meno a un calcolo razionale o economico. Una similitudine con i mesi che hanno preceduto la Prima guerra mondiale c’è, in effetti: ed è il rilancio del bluff da parte di tutti i contendenti, come se le tronfie parole dovessero sostituire gli atti e spaventare preventivamente l’avversario. Si urlava e ci si mobilitava, ma senza pensare che ci sarebbe stata veramente una guerra mondiale. Poi il limite fu passato senza ritorno – e senza coscienza consapevole.
È stato presentato a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, il 5 febbraio, il libro di Jan Assmann Esodo (Adelphi). Secondo l’autore, ha affermato il primo relatore – Giancarlo Gaeta –, il libro dell’Esodo è per più versi il fondamento delle civiltà monoteiste tutte: ebraismo, cristianesimo e islam. Se così è, tale fondamento è però afflitto da un’ambivalenza costitutiva e lacerante. Da un lato, è una storia di liberazione, di uscita da uno stato di schiavitù e soggezione al potere, o addirittura, se la leggiamo in modo simbolico, di rivoluzione e di rifiuto dello Stato (in questo caso quello egiziano dei faraoni). Per inciso, la parola “esodo” è stata utilizzata in tal senso ancora recentemente, con una forte sottolineatura politica. Ma, d’altra parte, nel racconto biblico, i fuggiaschi giunti in Palestina per prima cosa devono sterminare le popolazioni locali, per creare un nuovo Stato, quello del popolo eletto o – si direbbe con la terminologia aggiornata del “secolo ombra” – dell’“uomo nuovo”. E ancora prima vengono anche sterminati senza pietà i “dissidenti” paganeggianti, adoratori del vitello d’oro. Così la storia simbolica avrebbe il triste corollario di vedere la rivoluzione e la libertà risolversi in stragi e violenza. Saremmo dunque tesi fra due estremi, entrambi presenti nella nostra storia: una tensione religiosa verso la libertà dal potere e dallo Stato, e una tensione teocratica verso la fondazione di uno Stato nuovo attraverso la violenza. Estremi che poi sarebbero presenti in forma secolarizzata anche oggi.
Se dunque Assmann dice che l’Esodo è un mito di fondazione della nostra civiltà, allora lo è in senso duplice, perché spinge insieme alla liberazione, e poi anche alla violenza e alla pretesa di possedere l’unica verità. Questo è quanto è emerso dall’interessante dibattito, ma qualcuno ha poi tentato un’attualizzazione anche più spericolata, riferendosi a quanto sta avvenendo in Palestina: quel territorio è la terra promessa di chi fugge da una condizione intollerabile e da un terribile genocidio, ma non è meta di liberazione senza essere anche fonte di violenza verso coloro che in esso abitavano prima dell’arrivo degli ebrei nel Novecento. Sarebbe così in atto la terribile ripetizione di un archetipo mitico.
Mi sembra una tesi estrema, e forse l’arco storico temporale è troppo teso. Però non c’è dubbio che lo sterminio a Gaza non può essere pensato se non in relazione al genocidio degli ebrei nel Novecento, un fantasma terribile riattualizzato dall’aggressione di Hamas del 7 ottobre. (Sul carattere intergenerazionale del trauma storico, vedi qui). Ma la domanda a questo punto è: dobbiamo allora restare eternamente vittime della ripetizione di un archetipo storico e del suo mito, della catena irreversibile delle colpe e delle pene?
Quello che sta accadendo a Gaza eccede l’immaginazione, perché non è più una “riparazione”, forse nemmeno più una vendetta: perché una rappresaglia mantiene comunque una proporzione numerica tra le vittime dell’attentato e quelle uccise dall’esercito occupante. Anche se la gravità dell’evento è ancora per fortuna minore, la sua logica è invece quella che ha portato a Hiroshima, o al bombardamento di Dresda, e dunque non mira a colpire il nemico ma ad annientarlo. Ed è veramente tragico che gli eredi di coloro che sono stati vittime di un genocidio, stiano oltrepassando quel limite, quella linea rossa, che Simone Weil aveva lucidamente individuato nelle catastrofi del Novecento.
Il vincitore di ieri rischia di smarrire la lucidità che gli permetteva di cogliere la dinamica reale delle forze in campo, viene abbagliato dalla sua stessa potenza: “Devono necessariamente perire. Poiché non considerano la propria forza come una quantità limitata, né i loro rapporti con altri come un equilibrio tra forze ineguali. Dato che gli altri uomini non impongono ai loro movimenti quel tempo d’arresto, da cui soltanto possono procedere i nostri sguardi verso i nostri simili, essi finiscono per credere che il destino ha concesso loro ogni licenza, e nessuna a chi è ad essi inferiore. Da questo momento, essi vanno al di là della forza di cui dispongono. Essi vanno inevitabilmente al di là, perché ignorano che essa è limitata” (S. Weil).
Se l’esodo e la terra promessa sono davvero dei termini mitici che contengono insieme liberazione e violenza, è giunto il momento di dire che questo fondamento ci sta conducendo a rovina e che occorre scindere il nesso terribile che la nostra storia ha istituito fra le due cose. Se davvero le religioni monoteiste hanno un fondamento unitario, bisognerebbe mettere in rilievo il loro desiderio inclusivo e non quello esclusivo. I fondamenti e gli archetipi si ripetono sì, ma possono ripetersi con uno scarto differenziale che ne muti il senso e riattualizzi un diverso possibile in essi latente.
C’è proprio da augurarsi che Pierre-Henri Castel abbia torto, quando afferma nel suo Il male che viene (presentato da “Litorale.org”,12/06/2023) che ormai dobbiamo usare il termine “apocalisse” non più in senso teologico, o pensando alla lontana fine del sistema solare, ma in termini rigorosamente storici. A suo parere, i processi di devastazione in atto, dal punto di vista ecologico, psichico e politico, sono ormai irreversibili, e noi siamo la prima generazione che può pensare alla fine del mondo non come a un termine indefinito e lontano, ma come a qualcosa di prossimo e concreto. Il che non vuol dire oggi o domani, ma comunque entro cinquanta o cento anni: insomma, entro un tempo storico computabile. Anche se conserviamo la speranza che così non sia, occorre però ammettere che queste affermazioni sono comunque pensabili e realistiche, e questo è già un profondo mutamento del paradigma con cui pensiamo la storia e la vita in generale. Se possibile, sono ancora più inquietanti le prospettive che Castel, sulla base della sua ipotesi, formula riguardo al nostro destino politico e morale in questo “tempo che resta”: perché secondo lui la coscienza della possibile fine non ci rende affatto più “buoni” o più solidali, ma rischia di scatenare le più sfrenate pulsioni di aggressione e di appropriazione, secondo uno scenario che finora sembrava ristretto a serie televisive e film catastrofisti. Visto che il tempo che ci rimane è poco, visto che le risorse tenderanno a diminuire sempre più – potrebbero dire i più forti e potenti –, consumiamo nel più sfrenato godimento quello che ci rimane, aumentiamo finché possibile il nostro potere, eliminiamo chiunque ci faccia intralcio e ogni immaginabile concorrente: una vera e propria esplosione di sadismo e pulsione di morte.
Almeno su questo punto, però, Castel resta possibilista: non è detto che vada proprio così. Quel che è certo, per lui, è che ci sarà una fortissima tentazione o tendenza ad andare in questa direzione, e che dunque dobbiamo essere pronti ad affrontare una situazione così estrema: opponendo invece al senso della fine una opzione “leopardiana” di compassione e solidarietà comune. Castel ci invita dunque a una coscienza apocalittica, in cui il pensiero della fine possibile ci distoglierebbe dalla brama illimitata del possesso e renderebbe obsoleto il meccanismo capitalistico dell’accumulazione senza fine che ci ha portato a questo punto di non ritorno. Certo, anche il Bene, in questa prospettiva, dovrebbe munirsi di “zanne e artigli” per non soccombere, e tuttavia – sulla scia di Freud e Nietzsche – una coscienza apocalittica “aiuta a concepire una vita che si oppone vigorosamente alla morte, e che, per questo, non ha bisogno di domani, né di alcunché che la superi o la trascenda per darle senso” (Castel). C’è da sperare – come ho detto – che Castel abbia torto nella sua tesi di fondo, e che lui stesso sia un po’ troppo sensibile al fascino del negativo: ma indubbiamente si possono considerare queste sue parole, se non come una previsione, come un criterio, con cui dobbiamo abituarci a convivere. Non potremmo fondarci più su quell’“ethos del trascendimento”, aperto ottimisticamente al futuro, in cui per Ernesto De Martino consisteva la salute psicologica e culturale, ma sull’intensità della presenza del nostro essere al mondo, attimo dopo attimo, di fronte al volto degli altri, ora e qui.
Terminiamo con una nota lieta. Si dice spesso che i leader dell’attuale maggioranza di governo italiana siano ignoranti e sbruffoni. Non è sempre così! C’è fra essi un colto e fine teologo, vogliamo dire Antonio Tajani, che ha scovato il peccato originale degli ecologisti: “Si sacrifica l’uomo e il lavoro in nome del nuovo panteismo” (“Il Giornale”, 7/06/2023), quello appunto dei “verdi” che pretenderebbero perfino di vietare l’uso dei pesticidi, benefico condimento delle nostre tavole. Mentre “noi” – dice pure il profeta – “non abbiamo una visione dogmatica e di nuovo panteismo che non tiene conto del ruolo della persona”, soprattutto quando la “persona” monta su un trattore e blocca le strade. Mica come quegli sciagurati di “Ultima generazione”, che imbrattano le fontane! “Quando si pensa di fissare obiettivi che non sono raggiungibili – esplode Tajani – la papessa Thunberg si è posta il problema dei posti di lavoro che si potrebbero perdere in nome del nuovo panteismo? Persone che non sono mai entrate in una fabbrica o in una pantana”, perché “non puoi occuparti di una stalla se non sai come funziona una stalla” (“Il giornale d’Italia”, 2/02/2024). Pensiero profondo, estratto dalle viscere della cultura mediterranea più evoluta, che il nostro sottile teologo ha certo meditato nelle sue notti insonni, a colloquio con Dio. Ma resta un dubbio: se il panteismo minaccioso sia quello di Giordano Bruno o non piuttosto di Spinoza. Certo, mille fili perversi portano dalle teorie di questi mestatori eretici all’improvvido e ossessivo divieto dei pesticidi, che è una vera offesa al personalismo cristiano e alla radice cattolica della nostra patria.