La gitarella di Olaf Scholz a Pechino non ha mancato di suscitare una serie di reazioni, tanto a livello internazionale quanto nel dibattito politico tedesco. A molti, infatti, la capatina di dodici ore del cancelliere – il massimo previsto dalla rigidissima legislazione cinese in fatto di Covid – non è piaciuta. Ma quali le ragioni di questo viaggio? Era realmente così urgente? Scholz, al rientro, ha insistito sull’importanza dell’incontro, sottolineando di avere portato a casa, quantomeno, la dichiarazione da parte cinese di escludere l’utilizzo della “opzione nucleare” nel conflitto ucraino e – in una intervista rilasciata alla “Frankfurter Allgemeine” – ha aggiunto: “Alla luce di tutta questa discussione su se fosse il caso di andare o meno, il fatto che il governo cinese e il presidente Xi Jinping abbiano rilasciato una dichiarazione congiunta, insieme al sottoscritto, per cui nessun’arma nucleare deve essere utilizzata nel conflitto, bene, posso dire che anche solo per questo ne valeva certamente la pena”. Del resto i media cinesi hanno dato grande risalto alla notizia, sottolineando la rilevanza della dichiarazione comune.
Pare che la cosa non sia dispiaciuta nemmeno al ministero degli Esteri russo, che ha asciuttamente commentato che la “priorità assoluta”, nel mondo, dovrebbe essere quella di evitare un confronto tra le potenze nucleari, “nella situazione difficile e turbolenta in cui ci troviamo”. Scholz è stato il primo leader del G7 a visitare la Cina dopo lo scoppio della pandemia, una visita che ha definito “un grande successo”, e che ha effettuato accompagnato da una folta delegazione di imprenditori (tra cui i rappresentanti di Basf, Volkswagen e Siemens): il che ha fatto ipotizzare che alla base dell’incontro siano gli interessi economici, al di là dello sbandierato intento di “mitigazione” del conflitto ucraino.
Come si accennava, il viaggio ha suscitato però critiche in Germania e tra i partner europei. Le ragioni sono diverse: la “spedizione esplorativa” del cancelliere rende evidente la crescente dipendenza economica di Berlino da Pechino; e la presenza di Scholz in terra cinese potrebbe, inoltre, essere interpretata come una sorta di consacrazione del potere di Xi, dopo la stretta accentratrice al congresso del partito del mese scorso. Subito prima della partenza, il cancelliere aveva dichiarato che l’obiettivo era di “parlare di come possiamo sviluppare ulteriormente la nostra cooperazione economica e di altri temi: il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, i Paesi indebitati”. Ma l’impressione è che sotto ci sia dell’altro, che la posta in gioco sia decisamente più ambiziosa.
Che nella coalizione “semaforo” non tutti fossero d’accordo sulla missione, è risultato evidente fin da quando il cancelliere ha reso pubblica la decisione di partire. Non erano infatti mancate reprimende, moniti e avvertimenti: “Un viaggio sbagliato nel momento sbagliato” – aveva immediatamente tuonato un portavoce dei verdi, mentre la ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, aveva preso nettamente le distanze, ribadendo che la Germania non dovrebbe fare eccessivo affidamento sulla Cina: menzionando la questione spinosa dei diritti umani, e sottolineando che con lo stringere rapporti troppo stretti con la superpotenza orientale si rischia di ripetere l’errore già commesso in passato con la Russia. Ma le critiche più recise si sono concentrate, prevalentemente, sullo scollamento che il viaggio solitario di Scholz rappresenta rispetto ai partner europei. Ancora una volta, come abbiamo spesso sottolineato nei nostri precedenti articoli, la Germania sembra muoversi autonomamente rispetto all’Unione.
Zsuzsa Anna Ferenczy – assistente alla National Dong Hwa University di Taiwan, ed ex consulente politico del parlamento europeo – ha commentato: “Se, da un lato, penso che l’Europa debba trovare un modo per dialogare costruttivamente con la Cina da una posizione di forza, dall’altro, quello che sta facendo Berlino mina questa posizione, perseguendo i propri interessi a scapito dell’emergente, ma fragile, unità europea, che abbiamo visto formarsi dopo la guerra in Ucraina”. Un giudizio secco, e tuttavia non isolato. Reinhard Bütikofer, membro del gruppo dei verdi al parlamento europeo, ha dichiarato alla emittente “Deutsche Welle” che il viaggio di Scholz è in contraddizione con gli accordi della coalizione di governo, e avrà un impatto negativo sull’Unione europea e ripercussioni sulla coalizione “semaforo”. “Ha fatto passare il messaggio che la continuità degli affari e degli investimenti, in Cina, sarà per lui una priorità politica” – ha detto Bütikofer, e ha aggiunto che “la politica tedesca sulla Cina non può essere sviluppata solo sulla base della visione del cancelliere, che ha ignorato più volte consigli competenti. Quando abbiamo creato il nuovo governo, abbiamo deciso che la futura politica della Germania, nei confronti della Cina, avrebbe dovuto essere fortemente integrata a livello europeo, e coordinata con le relazioni transatlantiche. Nessuna delle due cose si è realizzata”.
Principale oggetto del contendere pare il fatto che, da tempo, l’economia tedesca appare sempre più compromessa con quella cinese, e che la Cina sia divenuta il primo partner commerciale della Germania. Nella partita che si sta giocando a Est, sembra però essere la Cina, con un curioso rovesciamento, a praticare una variante particolarmente aggressiva del Wandeln durch Handeln – cioè della strategia tipica della Ostpolitik, di diplomazia tramite il commercio –, utilizzando nuove forme di coercizione economica per perseguire i propri interessi politici. Una strategia che ha, come obiettivo, l’aumento della propria influenza sul più importante membro dell’Unione europea. Certo, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando i cinesi si lamentavano dei “briganti” occidentali; ora hanno scoperto che questi possono essere domati proprio attraverso la penetrazione economica. Certo è difficile, anche per una figura autorevole come Scholz, parlare di diritti umani, di Uiguri e di Taiwan, mentre nella stanza accanto si discute di investimenti e di radicamento delle imprese tedesche nel Paese.
In realtà, politica ed economia, nelle relazioni tra Germania e Cina, sono strettamente intrecciate: se la Germania dovesse premere – come vorrebbe la sua ministra degli Esteri, Baerbock – sulla questione dei diritti umani, per esempio insistendo sulla situazione nello Xinjiang, ciò potrebbe tradursi immediatamente in ripercussioni economiche negative, sotto forma di meno posti di lavoro alla Volkswagen, o meno container nel porto di Amburgo.
Il viaggio in Oriente di Scholz rimanda, dunque, a un insieme di inquietudini: non si può ignorare che le relazioni che si stanno stringendo appaiano pericolose – almeno sotto due profili, quello della sempre maggiore dipendenza della Germania dalla Cina, e quello dell’indebolimento di una politica europea unitaria nei confronti del gigante asiatico. La guerra, però, preme sull’acceleratore della storia, e scompagina le situazioni in precedenza consolidate, richiedendo la tessitura di relazioni nuove. La politica europea nei confronti della Cina paga, inoltre, il prezzo del suo passato eclettismo, dovuto a scelte ondivaghe e a balletti su vari fronti – da quello tecnologico a quello commerciale. La Cina di oggi è consapevole del suo peso, non accetta più il vecchio ordine euroatlantico, e vuole il suo posto al tavolo dei “briganti”.
È tempo allora – non solo per la Germania ma per l’Europa – di strategie nuove a Oriente, anche in considerazione dei comportamenti passati, tutt’altro che lineari e coerenti. In considerazione di una simile prospettiva, anche il passo fatto da Scholz, per quanto discutibile, assume un suo significato e una sua dignità.