Come per l’acquisizione di Twitter, per cui è ora sotto inchiesta della magistratura americana, anche per il suo sostegno all’Ucraina, Elon Musk prova ad alzare il prezzo. E proprio come sta andando per il raggruppamento con la piattaforma dell’uccellino rischia di lasciarci le penne, o di mostrare quale sia oggi il vero fronte del sistema militare americano. Dopo avere annunciato, infatti, che il supporto satellitare alla resistenza di Kiev gli costa troppo (il conto arriverebbe a circa 4.500 dollari a satellite al mese, e la flotta che copre il territorio ucraino è forte di ben diciottomila oggetti che ruotano nello spazio), ora, con il solito innocente tweet, arriva il “contrordine compagni”: al diavolo il denaro – dice il miliardario sudafricano –, continuerò ad andare in malora pur di sostenere la libertà ucraina.
Ci sarebbe da ridere se il caso non fosse drammatico. In quelle ore trascorse fra la prima minaccia e il secondo cessato allarme, migliaia e migliaia di combattenti ucraini si sono visti alla mercé delle truppe russe, senza più connettività, e soprattutto senza il sostengo di un monitoraggio dal cielo per localizzare le forze di Mosca. Due, al momento, sembrano le possibili spiegazioni di questa macabra roulette russa. Da una parte, si sostiene che Musk abbia tentato di giocare una partita personale nel gran gioco della guerra, accreditandosi a Mosca come un possibile mediatore in grado di scoraggiare la ribadita volontà di Zelensky d’incalzare i russi fino a quando non si saranno ritirati completamente dal territorio del suo Paese, compresa la Crimea. Infatti, qualche giorno prima del paventato ritiro della calotta di sostegno della flotta del gruppo satellitare Starlink, Musk aveva fatto circolare – sempre fra il serio e il faceto – una proposta di mediazione che non era per nulla dispiaciuta a Mosca. La base d’intesa prevedeva la neutralizzazione dell’Ucraina, con l’impegno occidentale a smilitarizzare completamente il Paese, in cambio del ritiro russo (escludendo la Crimea, che veniva considerata parte integrante ormai del regno di Putin), e la ripetizione dei referendum nel Donbass.
Il governo di Kiev aveva detto che questa traccia non poteva essere il punto di partenza di una trattativa, facendo indirettamente intendere che, a fronte di ferree garanzie internazionali, poteva forse assomigliare al punto di arrivo del negoziato. Ma la versione di Elon – come potremmo chiamare la proposta di tregua – era poi restata sul tavolo: e le voci di un incontro fra il magnate di Starlink e addirittura lo stesso Putin, pure accreditate da Washington, non avevano portato a mosse sorprendenti. Di conseguenza, sostiene questa scuola di pensiero, Musk avrebbe fatto dietrofront, mostrando a Mosca che senza un passo avanti di Putin tutto sarebbe rimasto fermo.
L’altra spiegazione, invece, si basa su un gioco delle ombre fra Musk e il governo di Biden, secondo cui il dipartimento di Stato americano avrebbe usato le bizze del miliardario per premere su Kiev e farle intendere che – se continua il gioco al rilancio di Zelensky, il quale ogni settimana pretende di più per sedersi al tavolo della pace –, allora gli occidentali, nelle loro diverse forme, sia statali sia private, sono pronti a sganciarsi dal sostengo alla resistenza. In questo secondo caso, il dietrofront farebbe intendere a Mosca che forse il messaggio è stato recepito – e che proprio Musk abbia concorso a mitigare le pretese ucraine. Un credito che il padrone di Tesla vorrebbe monetizzare con il via libera alla conquista di Twitter, e l’archiviazione dell’accusa di aggiotaggio che pende sulla sua testa. In tutto questo bailamme, appare completamente silente l’Europa che, curva nel fare i conti sul gas, ormai è del tutto ai margini di ogni possibile combinazione diplomatica.
Siamo ora a uno snodo nevralgico. L’inizio del congresso del Partito comunista cinese – che, iniziato il 16 ottobre, procederà per il tempo necessario a sciogliere tutti i nodi, senza avere prefissato un giorno di chiusura – spinge Pechino a far capire quale sarà la sua bussola. I cinesi si sono astenuti alle Nazioni Unite sul documento che condannava Putin, senza però esercitare il veto e tanto meno votando contro. Un segnale chiaro: non vogliono diventare i soci di un disastro, appoggiando l’operazione speciale del Cremlino. Poi arriveranno le fatidiche elezioni americane di midterm, a metà novembre, con cui Biden si giocherà l’osso del collo, nella sua battaglia contro la destra oltranzista e filorussa di Trump.
In questo dualismo, fra la forza che potranno conservare le leadership delle due super-potenze, a Occidente e Oriente, il fatto che persino un avventuriero samurai digitale, come Musk, possa illudersi di dare le carte, mostra l’assoluto vuoto politico sullo scacchiere globale. Di cui le baruffe chiozzotte italiane sono solo l’ultima scheggia del big bang. I tratti del caso italiano sono comuni a tutto il mondo: una radicalizzazione populista reazionaria, una rabbia anti-elitaria, l’insofferenza per ogni conseguenza della globalizzazione, la rivendicazione di un’autonomia e sovranità nazionale.
Una spinta che mette fuori gioco la sinistra, che non ha strumenti teorici né tanto meno politici per contrastare questa tendenza, e sposta lo scontro tutto nel campo reazionario, dove si gioca la partita fra il vecchio partito “finanziarista”, che ancora punta a una ripresa guidata dal mercato finanziario e dai sacerdoti del rating globale, e il partito localista, che mira a giostrare ancora il debito nazionale per finanziare un assistenzialismo di ceti marginali, che lasci mano libera alle nomenclature nazionali.
Torniamo cosi ai nodi che erano stati denunciati da Hilferding, nel suo saggio sul capitale finanziario, e alle tematiche consiliari che puntavano a riorganizzare lo Stato-nazione. Con la differenza che, al posto della classe operaia, oggi ci sono moltitudini di individui separati e contrapposti che chiedono di entrare in gioco, anche a costo della propria distruzione, come diceva Hannah Arendt nella sua analisi sul totalitarismo, che andrebbe oggi riletta.