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Comunione e liberazione, un cattolicesimo vicino al potere

Breve storia di un movimento ecclesiale, in difficoltà con il pontificato di Bergoglio. Ma la macchina va avanti, come si è visto a Rimini

30 Agosto 2022 Vittorio Bellavite  1536

Capisce meglio Comunione e liberazione chi ha potuto vederne la nascita, le varie articolazioni e lo sviluppo da Milano, dove Gioventù studentesca, all’inizio un ramo dell’Azione cattolica, si trovò ad agire in una cattolicità piuttosto attiva e ricca di presenza. Il carisma di don Giussani diede il “la” a una struttura e sensibilità autonome, fondate sull’identità che aggregava i suoi membri, e poi li separava dal contesto ecclesiale e anche civile. Indubbiamente, un fatto di mobilitazione e di aggregazione del tutto particolare. C’era un carisma unificante che motivava ad azioni entusiastiche e compatte verso l’esterno. Bisognava essere missionari! Note sono le missioni nella Bassa, la domenica, e altre spedizioni di “conquista” in Brasile, in seguito.

Con il Sessantotto i ciellini trovarono una funzione ben precisa: quella di contraddire la confusione esistente ed esprimere la volontà di certezza, di mobilitazione (che si contrapponeva, per certi aspetti, a quella del movimento studentesco e di organizzazioni del tutto alternative e ideologizzate). Cl ha sempre avuto bisogno di un “nemico”. Esso era costituito dalla cultura “laicista”. Poi c’era il marxismo, considerato nelle sue semplificazioni diffuse. Nella Chiesa la teologia e la morale, da una parte, recepivano a scatola chiusa le posizioni tradizionali, scavalcando il Concilio all’indietro; dall’altra, volevano un loro spazio ecclesiale per non confondersi col resto dell’universo cattolico. Tutto ciò significava potere avere le proprie omelie, i propri esercizi spirituali, i propri libri: insomma, un circuito ben individuato.

Inevitabile l’attrito che si creò con molte strutture diocesane, con le parrocchie, anche con la curia. Il seminarista Scola fu allontanato dal Seminario, perché parte di una struttura interna alla Chiesa non obbediente. (Ritornerà solo da arcivescovo). Cl riuscì ad avere tre o quattro parrocchie “di Cl”; per il resto, il tessuto diocesano era estraneo – e ciò creò attriti continui. I vescovi (Montini, poi Colombo, poi Martini) cercavano di non intervenire. Con Martini, più che con gli altri, la lontananza era evidente. Da una parte, la certezza della tradizione, dei riti, della volontà identitaria; dall’altra, la Parola prima di tutto, il confronto continuo con l’uomo in ricerca, con i non credenti. Nella Chiesa i principali antagonisti erano i cattolici-democratici del filone che faceva capo a Lazzati. In proposito, ho una testimonianza personale. Da giovane studente, andai da Lazzati all’“Italia”, il giornale cattolico che dirigeva (l’altro era l’“Avvenire”). Gli prospettai i fatti di una baruffa con Cl. Mi disse, testualmente, che avrebbe fatto di tutto perché fossero limitate o abolite le loro prepotenze: parole che mi sorpresero, tanto erano decise e dette a me che lo incontravo per la prima volta.

La struttura di Cl era coesa, e la loro compattezza e gerarchia erano fondate sul carisma di don Giussani. Diveniva inevitabile il confronto con la politica. Il pilastro portante era che il cattolico è portatore di valori e di linea, quindi ci doveva essere omogeneità tra i credenti in politica. Fui protagonista, agli inizi, di un episodio che serve a comprendere. Presiedevo un’assemblea dell’Intesa universitaria (la lista dei cattolici nelle università per i loro organismi rappresentativi). I presenti di consueto erano una trentina, quelli attivi nelle quattro università. Se ne presentarono una cinquantina di nuovi, tutti di Cl, mai visti, che pretendevano di votare perché quello era il “partitino cattolico”. Discussioni – non li feci votare, ma l’episodio è illuminante.

Poi Cl diede vita al Movimento popolare e alla Compagnia delle opere: il complesso di queste strutture diventavano un aspetto permanente della politica e dell’economia. Non ci furono difficoltà nella loro affermazione: da una parte, i vescovi, in gran parte non ostili; dall’altra, il grande sponsor papa Wojtyla, le cui sensibilità erano omogenee con Cl.  

Nel 1982 il papa partecipa al meeting di Rimini, e Cl è costituita come associazione di diritto pontificio.  Quando muore, Cl organizza il “Santo subito”, con una forza e una determinazione mai vista per altri pontefici. Intanto, si creano la condizioni per un exploit politico: quello di Roberto Formigoni, presidente della Lombardia per diciotto anni. Chi conosce il funzionamento di questa istituzione sa dal vivo quale sia stato il controllo e l’intervento diretto sull’istituzione regionale esercitato da quello che veniva chiamato “il Celeste”, osannato come il vero politico cristiano. Gli scandali travolgono Formigoni nel 2013, e poi Lupi, quello designato a succedergli. Giussani va in paradiso nel febbraio 2012, e papa Wojtyla fa in tempo a inviare Ratzinger a celebrare i funerali nel duomo di Milano.

Ma le cose cambiano nella Chiesa. Con papa Francesco todo cambia. Nel marzo del 2011, Carrón, che forse pensa di sostituirsi a Giussani, interviene pesantemente sul Vaticano circa il nuovo vescovo da nominare a Milano: doveva essere Scola – a detta di Carrón. Ma la cosa più pesante è la stroncatura della pastorale dei due vescovi precedenti, Martini e Tettamanzi. Ciò conferma quanto era chiaro da tempo. Con papa Francesco la situazione si capovolge. Grande meeting a San Pietro, nel 2015, piazza strapiena – ma Francesco non usa parole tenere. È una vera e propria sconfessione.

Dice Bergoglio: “Dopo sessant’anni, il carisma originario non ha perso la sua freschezza e vitalità. Però, ricordate che il centro non è il carisma, il centro è uno solo, è Gesù, Gesù Cristo! Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada. E poi il carisma non si conserva in una bottiglia di acqua distillata! Fedeltà al carisma non vuol dire “pietrificarlo” – è il diavolo quello che “pietrifica”, non dimenticare! Fedeltà al carisma non vuol dire scriverlo su una pergamena e metterlo in un quadro. Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. ‘Uscire’ significa anche respingere l’autoreferenzialità, in tutte le sue forme, significa saper ascoltare chi non è come noi, imparando da tutti, con umiltà sincera. Quando siamo schiavi dell’autoreferenzialità, finiamo per coltivare una ‘spiritualità da etichetta’: ‘Io sono Cl’. Questa è l’etichetta. E così cadiamo nelle mille trappole che ci offre il compiacimento autoreferenziale, quel guardarci allo specchio che ci porta a disorientarci e a trasformarci in meri impresari di una Ong”.

Queste parole di papa Francesco sono più che eloquenti, e raccolgono quanto si sapeva e scriveva da tempo. Intanto, Cl non ha più il protagonismo di prima. Francesco ha chiesto una modifica dello statuto dei Memores Domini (l’associazione di cui fanno parte i ciellini con i voti), quattro anni fa, ma niente si è mosso. Allora ha nominato un commissario – un gesuita di sua fiducia, padre Ghirlanda – e ha imposto dei limiti alla durata delle cariche di direzione. Carrón ha dovuto dimettersi. Ma la macchina di Cl va avanti, nonostante tutto; e con il meeting di Rimini, appena concluso, rafforza la sua ottica di interlocutrice privilegiata del potere come si viene definendo in particolare. Così è stato escluso dai leader invitati Giuseppe Conte. Perché? È una scelta politica per restringere l’area del possibile consenso. Per il resto, a Rimini non si è fatta eco alla voce del papa.

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