
Assolti, i tre ufficiali dell’Arma dei carabinieri e anche Marcello Dell’Utri, collaboratore di Silvio Berlusconi, inventore di Publitalia ed ex senatore della Repubblica. Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni non tramarono con Cosa nostra per imporre un ricatto allo Stato. Né il loro comportamento scatenò stragi e omicidi dei macellai corleonesi. Non c’è stata alcuna “trattativa” consistita, secondo i tifosi della linea della deviazione tra Cosa nostra e pezzi delle istituzioni, nelle interlocuzioni tra i carabinieri del Ros e la mafia per salvare la vita all’ex ministro Mannino in cambio di illecite concessioni ai corleonesi.
Il “fatto non costituisce reato” perché le interlocuzioni tra il Ros e Vito Ciancimino, ammesse dagli stessi imputati, erano regolari contatti investigativi per giungere all’arresto di Riina e, in tal modo, far cessare le stragi. Come si diceva, è anche stato assolto Marcello Dell’Utri. Secondo quanto si desume dal dispositivo – “assolto per non avere commesso il fatto” – la Corte ha ritenuto che l’ex senatore di Forza Italia non ha fatto da tramite con Silvio Berlusconi per minacciare il governo, secondo quanto prospettato, con ostinazione, dall’accusa palermitana. Coerentemente, la Corte d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino (giudice “a latere” Vittorio Anania), ha assolto per quest’ultima condotta anche Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina.
Le stragi del 1992 e 1993 furono decise da Cosa nostra e rappresentarono una grave minaccia alle istituzioni dello Stato, ma a tale minaccia non hanno concorso né i carabinieri del Ros né i politici del tempo. Al contrario, lo Stato reagì assestando gravi colpi alla regia corleonese che venne successivamente sconfitta.
Nel dicembre del 1992, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino fu portato in carcere, per “esecuzione pena”. E il 15 gennaio 1993, nel giorno dell’insediamento a Palermo del nuovo procuratore Giancarlo Caselli, fu arrestato Totò Riina. A leggere il dispositivo dei giudici della Corte d’appello, si può affermare che esce sconfitta la tesi secondo la quale la disponibilità ad assecondare le richieste dei mafiosi per far cessare le violenze fu un gravissimo errore che costò la vita a Paolo Borsellino, ostacolo agli intrapresi contatti tra il Ros e Vito Ciancimino.
Chi ha sostenuto in questi anni che il procuratore Borsellino fu ucciso in via D’Amelio anche grazie alle connivenze di funzionari dei servizi segreti, esce sconfitto. “Dodici anni di indagini e poi di processo, per ricostruire il contesto dentro il quale maturò la fase stragista ed eversiva dei corleonesi”. Sono state molto “al limite” le indagini e poi il processo, non potendo, Palermo, indagare sulle stragi Falcone e Borsellino, sui loro moventi, causali delle stragi stesse. Non è ancora chiara la ragione dell’avvio di un’indagine immediatamente dopo la definitiva sconfitta dello schieramento corleonese, determinata dall’arresto di Bernardo Provenzano nell’aprile 2006.
Dodici anni dall’inizio delle indagini, nove dalla prima udienza in un’aula di tribunale. Singolare è apparsa l’imputazione di “violenza o minaccia a un corpo politico amministrativo o giudiziario dello Stato”. Era stato l’allora colonnello Mario Mori, nel corso del 1997, deponendo a Firenze quale teste nel processo del 1993 per le stragi sul continente, a rivelare che, dopo la strage Falcone, dal giugno al dicembre del 1992, il Ros dei carabinieri contattò l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per convincerlo a far catturare il capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina.
La ricostruzione di Mori non convinse fino in fondo quei giudici fiorentini. Nelle motivazioni del loro processo, accennarono alla trattativa, limitandosi a prendere atto delle dichiarazioni di Mori, ritenendole non del tutto convincenti, perché con le stragi Cosa nostra aveva messo in ginocchio lo Stato ed era strano che lo stesso Stato in difficoltà si fosse presentato da Ciancimino ponendo condizioni. Oggi i giudici di Palermo confermano che quella di Mori e De Donno non fu una trattativa deviata, ma i due ufficiali dell’Arma, com’era in loro potere, si limitarono a svolgere un’attività info-investigativa di polizia giudiziaria, nel tentativo di giungere all’arresto di Totò Riina.
Dopo tre giorni di camera di consiglio, per i due giudici togati e i sei giudici popolari, dunque, quell’attività, che fu ribattezzata come una trattativa, non è mai stata uno strumento di ricatto di Cosa nostra allo Stato. Marcello Dell’Utri, poi, non trasmise al governo Berlusconi le richieste di Cosa nostra. Sono state invece confermate le condanne del medico e postino di Totò Riina, Antonio Cinà, e solo in parte quella del cognato del boss, Luchino Bagarella.
Il processo è arrivato in appello lasciandosi dietro due assoluzioni “pesanti”. Quella dell’ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino, il motore – secondo l’accusa – della trattativa. L’esponente politico si sarebbe rivolto al Ros dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’eurodeputato andreottiano, nel marzo del 1992, temendo per la sua vita.
Durante quei contatti tra il Ros e Ciancimino, tra il giugno e dicembre di quel terribile anno, i corleonesi cercarono di uccidere altri due uomini delle istituzioni: il dirigente del commissariato di polizia di Mazara del Vallo, Rino Germanà, nel settembre. E il giudice Piero Grasso che avrebbe dovuto saltare in aria con un’autobomba.
La fase stragista dei corleonesi si concluse con una disfatta agli inizi del 1994. Il gruppo dirigente di Cosa nostra fu arrestato (all’appello manca solo Matteo Messina Denaro). Diversi “soldati” si pentirono. E da allora la Cosa nostra che avevamo conosciuto ha cambiato pelle. Non spara più, si è inabissata.