Non sorprende il vicolo cieco a cui sta mettendo capo la telenovela parlamentare intorno al disegno di legge Zan. Nei parlamenti italiani, infatti, c’è sempre una componente centrista (ancor più quando c’è di mezzo la Chiesa cattolica) pronta a venire a patti con le destre, edulcorando o anestetizzando qualsiasi riforma. Bene ha fatto Enrico Letta a tenere (fin qui) fermo il punto. Ciò che va ribadito è che la nozione di “identità di genere” – proprio questa, in particolare – non è negoziabile se si vuole liberare un certo numero di persone da una ignominia a cui, altrimenti, sarebbero facilmente condannati.
Prima di spiegare il perché, conviene fare una breve premessa di carattere filosofico. Nulla probabilmente di più vago e sfuggente dell’identità. Non esistono al mondo due cose perfettamente identiche. Soltanto nella logica, con il principio di identità (da cui scaturisce il famoso tertium non datur), ci siamo costruiti una piccola fortezza mediante cui poter affermare che un oggetto è identico a un altro. A prevalere, nella realtà, sono però le differenze e, tutt’al più, le somiglianze; mentre quella dell’identità è una nozione che serve a mettere ordine nella caleidoscopica varietà dei fenomeni e degli eventi.
Anche ciò che chiamiamo l’identità di una persona è il frutto di un’approssimazione: certe caratteristiche ricorrenti del “carattere”, o i tratti fisionomici di un viso (al netto degli interventi di chirurgia estetica), sono relativamente permanenti: e sono questi che consentono di riconoscere qualcuno come identico a se stesso nello scorrere del tempo. Ma che cos’è l’identità, allora, se non un modo sommario di trattare qualcosa come se fosse uguale a se stesso o a qualcos’altro?
Ora, l’identità sessuale, la rigida dicotomia maschio/femmina, è un modo che nei secoli la società si è data per conferire un ordine – seguendo una sorta di principio di maggioranza – alla variegata realtà umana del desiderio, e anche delle “perversioni” (per usare il termine peggiorativo adoperato da Freud), sulla base di una sessualità definita “naturale” mediante un criterio ristrettamente riproduttivo. In sostanza, coloro che, accoppiandosi, possono procreare sono considerati nella normalità. E tutti gli altri? Nei secoli li si è insultati, perseguitati, costretti a nascondersi. Sono sempre esistite non solo diverse forme di omosessualità – diverse perfino tra loro, esse stesse non riconducibili a un’unica categoria –, ma forme di vita differenti riguardo alla stretta distinzione maschio/femmina.
La cosiddetta identità sessuale di una persona, con il progressivo affermarsi dei diritti delle minoranze, è qualcosa che non può più essere semplicemente il frutto di un’attribuzione da parte della società circostante, o, peggio ancora, una faccenda da stato civile, nel senso di ciò che viene dichiarato alla nascita e sta scritto sulla carta di identità. Ciascuno sa bene, se scava a fondo nella propria psicologia, che aderire a una “identità” è anche, e soprattutto, una questione individuale, e neppure una scelta ma qualcosa come una inevitabile declinazione di se stessi.
Di qui la nozione di “identità di genere”. Essa proviene non soltanto da una evoluzione dei costumi (in Occidente), da un diffuso senso comune circa la difesa dei diritti delle minoranze, ma anche dalla circostanza che gli sviluppi della tecnica e della scienza (nel caso specifico, della medicina e della chirurgia) hanno reso possibili transizioni che un tempo si faceva fatica a immaginare. Il punto, tuttavia, è che se si usasse, al posto di “identità di genere” – in un testo di legge preparato per proteggere da violenze, aggressioni e insulti coloro che si sentono altra cosa rispetto alla tradizionale distinzione maschio/femmina –, una espressione troppo stringente, come sarebbe “transessuale”, si escluderebbero quelle persone che a far ricorso all’ausilio della medicina e della chirurgia non pensano affatto.
“Identità di genere” è il termine che sbarazza il campo dalla pura e semplice medicalizzazione della forma di vita a cui ci si sente inclini. Altrimenti, anche senza volerlo, si ricadrebbe in una idea delle diverse forme riguardanti l’identità di una persona come qualcosa che, per forza di cose, sconfina nel patologico (o è attinente alle “perversioni”, come riteneva Freud). Troppa acqua è passata sotto i ponti delle antiche oppressioni, troppe possibilità, in precedenza neppure visibili, oggi lo sono: così operare una restrizione dei possibili, attraverso una opzione terminologica, avrebbe il retrogusto amaro di una rinnovata repressione, e, come si diceva all’inizio, potrebbe significare relegare qualcuno ancora una volta nell’ignominia dell’esclusione.
Dispiace perciò che alcune femministe (non tutte, ovviamente) abbiano assunto una posizione regressiva, quasi di difesa corporativa del loro “essere donne”. Sappiamo come, nel mondo della prostituzione per esempio, esista il fenomeno di una estetizzazione “trans” del femminile, che dà luogo a una sorta di “iperdonna”, desiderabile segnatamente da quei maschi incapaci di entrare in rapporto con l’alterità femminile. C’è, in altre parole, un fenomeno di copertura reciproca tra il disprezzo della donna e, da parte di certi uomini, il suo recupero recitativo “iper” mediante il mercimonio con una parte del mondo trans. Ma questo, che è solo un esempio, non deve impedire di riferirsi a tutt’altra esperienza drammatica: quella di vivere se stessi in un modo ed essere costretti, dal mondo sociale in cui ci si trova, a nascondersi o a temerne il giudizio. È a questo indispensabile riconoscimento di un diritto di libertà e autodeterminazione che l’espressione “identità di genere” in fin dei conti fa riferimento.