La scoperta del tesoro di Anagni, con quasi trenta milioni di dosi di vaccino AstraZeneca, diciamo l’intero fabbisogno attuale del nostro paese per completare almeno il giro della prima somministrazione, rende quasi caricaturale lo scenario dell’emergenza sanitaria. Siamo tutti appesi alla data di un’eventuale vaccinazione, nella speranza, che ogni giorno che passa sbiadisce un po’ di più, di chiudere questa terribile parentesi della pandemia. Ma forse la prima forma di intossicazione da cui liberarci è proprio l’idea che viviamo una crisi che, per quanto acuta, prima o poi ci riporterà dove ci ha trovato. In realtà siamo nel pieno di una transizione che ci sta accompagnando verso un mondo che stentiamo a identificare. I vaccini ne sono il testimonial.
Noi siamo abituati a un’idea di vaccino come toccasana: si sviluppa, si produce, si distribuisce e ci si immunizza, cancellando il rischio del virus. Ora però ci stiamo accorgendo che il record di velocità nella sua produzione (davvero impensabile che, dopo pochi mesi, si sia riusciti a elaborare procedure cosi precise per colpire esattamente quel tipo di virus, fra le decine di migliaia che pullulano attorno a noi) presenta numerosi imprevisti; e soprattutto che la gestione dei farmaci sta rispondendo a logiche fino a oggi esterne alla fase terapeutica. Anche perché la stessa ricerca e produzione industriale del prodotto è stata del tutto eccentrica e anomala, questa volta, rispetto alla storia scientifica dei vaccini.
Quella battutaccia sfuggita dalla bocca del premier britannico Johnson – greed is good – per indicare che solo l’avidità del capitalismo ha potuto mettere in campo gli istinti belluini tali da permetterci di arrivare, con la prospettiva di ingenti guadagni, a risultati inizialmente imprevedibili, coglie indubbiamente un aspetto del mercimonio farmacologico in corso. I vaccini sono diventati l’equivalente delle basi missilistiche degli anni Settanta. Un risiko globale in cui ricerca, produzione e distribuzione sono armi di una geostrategia sanitaria che ridisegna alleanze e relazioni internazionali.
I nuovi vaccini del tipo RNA, come Pfizer e Moderna, che sovvertono lo schema tradizionale anticorpale e lavorano sull’informazione genetica da trasmettere al sistema cellulare in vista dell’attacco del coronavirus, hanno bisogno di reagenti particolari al momento prodotti solo da due aziende al mondo: una negli Stati Uniti e una in Europa. In entrambe sono rintracciabili azionisti statunitensi. Lo stesso accade alle imprese partner dei gruppi titolari dei vaccini accreditati (come Pfizer, Biontech e Moderna che hanno una serie di intese con aziende del vecchio continente), la maggioranza delle quali risponde a proprietà americane. Lo stesso vale per AstraZeneca, che conta su un network con altre otto aziende europee (almeno due con sede in Italia), fra cui Catalent, di proprietà ancora americana.
La sensazione è che stia accadendo nella farmacologia ciò che si verificò a suo tempo nell’informatica, quando gli americani fecero terra bruciata attorno alle imprese europee, facendosi anche pagare dai governi per collocare nei paesi della Comunità i loro centri di ricerca. Si ricorderà la triste vicenda della divisione elettronica dell’Olivetti, che aveva progettato e costruito il primo personal computer al mondo, il Programma 101, di fatto svenduta alla General Electric. L’allora direttore del prestigioso settimanale francese “L’Express”, Jean-Jacques Servan-Schreiber, scrisse un famoso e fortunatissimo libro, La sfida americana, in cui spiegava come gli europei pagassero gli americani affinché loro li comprassero.
Oggi, attorno all’Europa come sempre spettatrice passiva, va in scena la guerra delle varianti, con i vaccini statunitensi che cercano di escludere dal campo la concorrenza cinese e russa. La partita sembra largamente vinta da Washington, che può mettere sul piatto il trionfo in una campagna di vaccinazione che già quest’estate porterà l’economia americana a ripartire di gran carriera, mentre nel mondo ci si contende i rimasugli delle fiale che rimangono in circolazione. Uno spettacolo indecente, di cui lo scempio di Anagni è l’aspetto più scandaloso. Rimangono poi completamente scoperte aree sterminate come l’Africa e parte del Sudamerica.
E rimane in sospeso un’altra domanda: cosa accadrà in futuro? Infatti l’attuale soluzione dei vaccini sembra assicurare una copertura momentanea, limitata al periodo di garanzia sperimentalmente accertato, non più di otto mesi. Poi? Bisognerà rifare la somministrazione. I paesi europei, interi continenti, si troveranno periodicamente esposti al controllo terapeutico americano? L’unico modo per forzare questo blocco sostanziale è rinegoziare con i governi, oltre che con le imprese, un quadro di stabilizzazione globale. Ci troveremo, fra qualche tempo, di fronte a forme virali del tutto inedite, in cui le varianti e le ibridazioni del virus tenderanno a sfuggire all’azione di protezione del vaccino. I dispositivi di nuova generazione, RNA, sono in grado di essere riprogrammati, come gli algoritmi, durante la produzione. Dunque ottenere di decentrare la produzione – e non solo, come sta accadendo in Italia, dove sono scaricate le residuali attività di riempimento delle boccettine di vetro da distribuire, cioè l’operazione più povera tecnologicamente e irrilevante rispetto all’efficacia del farmaco – diventa essenziale per poter riconquistare una propria autonomia nel contrasto a un virus che non sembra vicino a lasciarci.