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Il partito del non voto, una corsa senza freni
13 febbraio 2023, ore 15,10. Chiusi i seggi, da pochi minuti le agenzie di stampa, i siti online e un web sempre più pervasivo hanno cominciato a diffondere le primissime percentuali degli exit poll, che confermano una vittoria netta del centrodestra in Lombardia e nel Lazio. Corrono soprattutto le pesanti cifre sul primo partito, quello del non voto. Gli astensionisti di tutta Italia, provenienti da culture e partiti diversi (ma a quanto pare questa volta soprattutto dalla sinistra), si sono uniti. Al momento in cui scriviamo disponiamo ancora di dati parziali. Ma la tendenza è confermata: in Lombardia la percentuale dell’affluenza è del 41,61% (nel 2018 aveva votato il 73,81%). Nel Lazio la partecipazione arriva al 37,20% contro il 66,55% della tornata precedente. A Roma, in particolare, l’astensionismo ha raggiunto un livello record, con una partecipazione di appena il 35,18% contro il 65,46 del 2018. Ormai in Italia votano meno di quattro elettori su dieci.
La disfatta della partecipazione si era capita molto bene già dalla sera prima. Alle ore 23 di domenica, nel Lazio, aveva votato il 26,28% degli aventi diritto, un dato di molto inferiore al 66,5% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però si votava in un’unica giornata e si votò insieme alle politiche. Quasi la stessa foto in Lombardia, dove ieri sera aveva votato per le regionali il 31,78% degli aventi diritto, meno della metà rispetto al 73,1% registrato alla stessa ora nel 2018, quando però – come nel Lazio – si votava in un’unica giornata per le regionali e le politiche.
Il topo e i vermi
In un alto consesso senatoriale un ex “topo di fogna” (ma poi davvero ex?) si candida alla presidenza; alcuni suoi antichi sodali si smarcano per ripicca, non lo votano; e allora interviene in soccorso una pattuglia di vermi che lo fa eleggere. Un film di ordinario trasformismo? Nella sostanza sì. Ma viene in mente questo, in aggiunta: il Partito democratico non è mai uscito dalla sua renzizzazione. Anzi, la “renzata” – cioè la manovra parlamentare che porti a un governo tecnico o di “larghe intese” – è ormai parte integrante della sua non-identità. Che poi ha un nome preciso: quello di Dario Franceschini. Fu lui, fin dall’inizio della infausta vicenda, tra quelli che vollero un partito senza ideologia e senza identità – di fatto, un agglomerato di personalismi e potentati. E fu anche lui, con la sua corrente, a essere il primo sostenitore di Renzi alla segreteria del Pd (salvo poi pentirsene).
Non si tratta solo di uno stile democristiano, sebbene questo indubbiamente abbia un peso, dato che i “franchi tiratori” erano un’istituzione nel partito cattolico; si tratta, purtroppo, di qualcosa di peggiore. L’essere “vermi” è parte di una egemonia berlusconiana sulla politica italiana, che dura da trent’anni, nonostante l’irreversibile declino del vecchio patriarca. Il Pd, nelle intenzioni dei suoi fondatori, doveva essere una specie di Forza Italia “di sinistra”: lo dichiarò un suo teorico, se così possiamo chiamarlo, Michele Salvati, e cominciò con il concretizzare la cosa Walter Veltroni. Ora, dato che un gruppo di potere univoco, imprenditoriale e mediatico, come quello che stava alle spalle della Forza Italia originaria, non c’era, il Pd risultò subito quel partito che non è né carne né pesce, pronto perciò a qualsiasi forma di compromissione. Tentò – è vero – una qualche sterzata la segreteria Bersani, però il diavolo ci mise lo zampino (in quel momento si chiamava “gruppo Grillo-Casaleggio”, un aggregato non meno privatistico di Forza Italia, ma con una capacità di trascinamento dello scontento popolare), e Bersani, non avendo veramente vinto le elezioni, dovette passare il testimone appunto a… Renzi.