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Perché Elena Ferrante spiega meglio dei classici la questione meridionale odierna

Un partito “geniale”: più di Gramsci, forse è la Ferrante, con i suoi romanzi dell’“amica geniale”, a spiegarci come si attraversi individualmente il tunnel dell’emancipazione dalla miseria. Dopo averla tanto reclamata o sollecitata, ecco che torna a esplodere la questione meridionale. In realtà né Gramsci, né Rocco Scotellaro, né Guido Dorso, o perfino lo stesso De Mita, la riconoscerebbero. I tratti delle dinamiche che hanno portato il Mezzogiorno ad affidarsi a un impasto di neocorporativismo dell’assistenza, con il voto di massa ai grillini, combinato con una richiesta di tutela anti-europea per quello alla Meloni, sfuggono alle categorie tradizionali. La distorsione del modello di sviluppo, la prevaricazione nordista, il fallimento delle classi dirigenti locali, sono sempre motivi di lamentazione – ma stanno sullo sfondo rispetto a una diretta ed esplicita negozialità di ogni singolo elettore, di ogni figura sociale che cerca l’interfaccia con le istituzioni per contrattare il proprio reddito.

Più che i sacri testi sociologici o ideologici, perciò, potrebbe aiutarci l’opera di Elena Ferrante. Oggi forse diventa più nitido e decifrabile il valore di quella narrazione asciutta, scevra da luoghi comuni, ma soprattutto intrisa di una visione socio-antropologica della vita vera nel Mezzogiorno, a Napoli, nei quartieri del trionfo grillino. Un’allegoria perfetta di quelle trasformazioni, in cui la miseria diventa riscatto individuale, contorsione e adattamento per trovare una via di fuga dal quartiere, dalla condizione subalterna, ma sempre soli, separati dal resto. Il tunnel, che nell’immaginaria urbanistica del racconto congiunge il quartiere dei poveri alle zone dei ricchi, viene attraversato uno alla volta, e spesso si torna indietro, per reinvestire nel quartiere il proprio momentaneo benessere.

Postfascisti, per meglio dire neopoujadisti

Pierre Poujade, chi era costui? Un cartolaio di un piccolo borgo nella Francia centrale, che negli anni Cinquanta del secolo scorso diede vita a un sindacato dei commercianti dal forte accento antifiscale. Si presentò alle elezioni, ottenendo un certo successo, con un movimento denominato Unione e fraternità francese. Tra le sue file, fu eletto per la prima volta il padre di Marine Le Pen, quel Jean-Marie che successivamente fondò il Fronte nazionale con la benedizione di Giorgio Almirante, riprendendo dal Movimento sociale italiano il simbolo della fiamma tricolore, finito poi nell’emblema di Fratelli d’Italia.

“Tutto si tiene”, come dicono i francesi. La storia talvolta va a ritroso: essere “postfascisti” può significare essere “prelepenisti” o “neopoujadisti”. La proposta venuta da Meloni e dai suoi (ma respinta in Senato) di destinare i soldi del cashback, cioè il parziale rimborso delle spese effettuate con carta di credito, anziché agli utenti, ai ristori per le aziende in difficoltà, va collocata infatti all’interno di una prospettiva prettamente poujadista. La misura voluta dal governo Conte 2, disincentivando l’uso del denaro contante, è stata una mossa concreta contro l’evasione fiscale, nella quale si distinguevano, ben prima della crisi sanitaria, molti negozianti. Proporre di assegnare i soldi, invece che agli acquirenti, al sostegno per i venditori, è la stessa cosa che dire a questi ultimi: “Tranquilli, evadete pure, anzi vi giriamo anche quel piccolo premio che si pensava di dare a chi utilizza la moneta elettronica per i pagamenti”.

Qualche parola sul Mezzogiorno

Si sa che la questione meridionale è da sempre questione nazionale – e ora, si potrebbe dire, europea. Lo è così tanto che perfino Draghi, presidente del Consiglio di un governo che esprime in larga misura gli interessi del blocco borghese del Nord (e di un partito, la Lega, che prima di trovare negli immigrati stranieri il nuovo capro espiatorio, proprio intorno al distacco dai meridionali puzzolenti aveva costruito le sue fortune politiche), ha dovuto riconoscere in un suo recente intervento che il divario tra le regioni del Sud e quelle del resto del paese è enormemente aumentato negli scorsi decenni, e che tra il 2008 e il 2018 la spesa per gli investimenti pubblici nel Mezzogiorno “si è più che dimezzata”. In proposito, è accaduto a chi scrive di parlare una volta di uno “sviluppo del sottosviluppo”, con riferimento a un’economia della miseria civile, guidata dalla criminalità organizzata, che caratterizza una città come quella partenopea, in cui il riciclaggio del denaro sporco, nella gestione di locali pubblici o nella compravendita degli immobili, spetta a un ceto di persone insospettabili e perbene.

Adesso si tratterebbe di spendere con giudizio i fondi europei. Per esempio evitando di rilanciare progetti faraonici del tutto insostenibili, dal punto di vista ambientale, come il ponte sullo Stretto; e pensando invece alle infrastrutture ordinarie, come quelle della viabilità e di una rete ferroviaria in stato di completo abbandono al di sotto di Napoli. È possibile, anzi probabile, che qualcosa di questo si farà. È infatti anche nell’interesse dei produttori di merci del Nord del paese che nel Mezzogiorno ci si possa muovere più agevolmente. Ma, per il resto, non è affatto molto probabile che si realizzino investimenti pubblici all’altezza dei bisogni.