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Draghi è la soluzione meno peggiore

Mario Draghi alla presidenza della Repubblica è la scelta da augurarsi per un insieme di ragioni. La prima – piuttosto ovvia – è che, intorno al nome di Draghi, può raccogliersi un voto trasversale, indispensabile, date le forze in campo, per eleggere il capo dello Stato. Staccare la Lega dall’abbraccio con gli yesmen e le yeswomen di Berlusconi non sarebbe secondario; e vorrebbe anche dire offrire una sponda ai leghisti meno salviniani, tra cui l’attuale ministro Giorgetti, amico stretto di Draghi. L’obiezione che si può muovere è che la candidatura di Draghi spaccherebbe i 5 Stelle. Ciò senz’altro è possibile, ma non impedirebbe, con tutta probabilità, il raggiungimento alla quarta votazione di una maggioranza comunque ampia (ricordiamo che, nelle prime tre, servirebbe una maggioranza qualificata che appare fuori portata per chiunque, al momento).

La seconda ragione è che Draghi, in quanto persona almeno apparentemente super partes, potrebbe ottenere quella fiducia da parte della gran parte dei cittadini che – spoliticizzati da anni di qualunquismo e di attacchi alle istituzioni democratiche – tendono a non fidarsi più di nessuno, se non di coloro che si presentano come “esterni” rispetto al mondo della politica. È un’illusione, d’accordo – ma tant’è. Poiché non si può non essere interessati a una tenuta della suprema carica dello Stato, collocata in una funzione di presidio della Costituzione repubblicana, Draghi può essere il nome giusto per assicurare all’istituzione un alto grado di consenso popolare.

Un Draghi a due teste

Dopo la conferenza stampa di fine anno, sappiamo con certezza che Draghi è disponibile a farsi eleggere alla presidenza della Repubblica. Peraltro non ne dubitavamo: come presidente ha una lunga carriera alle spalle, gli manca soltanto l’ultimo gradino per poter fare il “nonno”, come lui stesso si è definito, coronando probabilmente l’ambizione di una vita. Ma la questione non è il carrierismo di Draghi (del resto sostenuto anche dal “Financial Times”, secondo il cui autorevole parere meglio sette anni in un bel posto sicuro, anziché ancora un anno, o poco più, al governo). È piuttosto l’inghippo istituzionale che ciò comporta. Abbiamo infatti un presidente del Consiglio che, nelle prossime settimane, sarà tutto preso da una trattativa più o meno sottobanco per trovare un accordo tra i partiti sul governo che dovrà succedergli, mentre lui rassegnerà le dimissioni nelle mani del capo dello Stato uscente – per ripresentarsi subito dopo come il capo dello Stato entrante, olé!

Contro la rielezione del capo dello Stato

Sebbene Sergio Mattarella lo abbia detto e ripetuto, con la serietà che gli è propria, che non ci pensa a farsi rieleggere alla presidenza della Repubblica, sia i “bis!” sentiti al teatro della Scala sia l’interesse di qualche dirigente politico, forse incapace di prospettare soluzioni, sembrano insistere sulla possibilità di una riconferma dell’attuale inquilino del Quirinale. Ma è il caso di ricordare a costoro che siamo in una repubblica parlamentare (per fortuna) in cui il capo dello Stato dura in carica sette anni. È vero che un’esplicita norma che ne vieti la rielezione non c’è nella Costituzione, ma nemmeno è scritto il contrario: e cioè che il presidente sia rieleggibile.

L’eccezione, che non è una regola, è quella di Giorgio Napolitano, il quale fu riproposto per un incredibile secondo mandato “a tempo”, tra il 2013 e il 2015, in una situazione politica particolare, immediatamente post-elettorale, che vide la sconfitta del segretario di quello che era, purtuttavia, uscito come il partito di maggioranza relativa, cioè il Pd, nel tentativo di far convergere i voti prima su un candidato (Marini) e poi su un altro (Prodi). Sembrò a quel punto ragionevole rieleggere Napolitano, al fine di evitare un’impasse. Intanto si profilava, con la spinta dello stesso Napolitano, una soluzione di governo da solita “unità nazionale” all’italiana (anche per l’indisponibilità grillina a entrare in una maggioranza con il Pd) e una nuova “stagione di riforme” – poi come da copione abortita – che avrebbe aperto la porta, sotto la regia di Renzi, a un progetto di rafforzamento dei poteri dell’esecutivo in chiave larvatamente presidenzialistica.